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Poesia in volgare: epica storica e romanzi d’amore in versi

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 50-54)

Il Cinquecento è al tempo stesso il secolo dell’affermazione della poesia e dei codici manoscritti in volgare. Sebbene sia ipotizzabile l’esistenza di forme di poesia in volgare prima del 1520, non se ne può ricostruire la storia. Fonti attendibili ci parlano di iaculatores alla corte del re Mattia, ma a quest’epoca il termine non indicava più dei poeti-cantori, ma piuttosto dei musici. Abbiamo invece notizie di studenti ungheresi che “cantano” poesie d’amore in ungherese, e la prima vera testimonianza di una poesia completa non religiosa ungherese è in lingua italiana.

Ce la tramanda Bernardino Tomitano nel suo trattato Tre libri di ragionamenti della lingua toscana (Venezia, 1546). Paolo Manuzio presenta in toscano una canzone ungherese da lui ascoltata in originale e poi in traduzione latina:

Et nell’istesso tempo, che io in Padova mi ritrovai, sentii una sera uno scolare Ungaro il quale mormorando tra sé, non so che cantava pienamente: e perché egli era alquanto mio domestico, il pregai che egli latinamente volesse espormi quella cotal canzone, et egli volentieri la mi disse, onde molto restai della purità di quella lingua maravigliato, et a dirla toscanamente verrebbe a significare quello che voi udirete:

Donna ch’avete nel bel petto santo Mille cor, mille palme

Di mille sventurate amoros’alme,

Che fa la mia? ben so, che ’l sdegno e ’l pianto De l’altre tutte in se medesima tolle,

Perché d’ogn’altra è più tenera e molle:

Et vie più so vostra crudeltate Ch’ha preso qualitate;

Quest’una doglia il cor ben dee patire, Ma le pene d’altrui non può soffrire.

Né la letteratura dei codici cinquecenteschi né l’arrivo della stampa ci portano testimonianze utili di quel passato. Alle menzioni indirette di una tradizione pre-esistente alla latinizzazione ed europeizzazione della poesia si possono aggiungere indagini di metrica che danno indicazioni sulle tendenze naturali della lingua nel Trecento e nel Quattrocento. Dal punto di vista antropologico si può fare un discorso analogo per le forme popolari e creative di preghiere cristiane, in cui si riscontrano non pochi elementi del periodo pagano che si sarebbero mescidati con figure, parole e formule cristiane. Tra l’XI e il XV secolo per l’influenza del peso culturale e linguistico del latino si manifesta nell’ungherese un tipo nuovo

di metrica, che è simile alla ritmica medievale e accanto ad esso l’imitazione della metrica sillabica italiana e francese. Tuttavia è evidente che questi modelli metrici non sono del tutto congeniali alla lingua. Essa è infatti per natura quantitativa, per cui la sillabazione vi si può certamente adattare, ma l’accentuazione gram-maticale delle parole non può avervi molta importanza, in quanto in ungherese l’accento tonico cade sempre e soltanto sulla prima sillaba di ogni parola. Tale fondamentale processo, che conduce direttamente nella storia della poesia mo-derna, si compirà tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento con il movimento classicista, partendo ancora una volta da un’esperienza di traduzione, in particolare dall’Orazio di Dániel Berzsenyi.

Ad eccezione dei frammenti succitati e fino a Balassi (la cui lirica amorosa matu-ra e comincia a diffondersi tmatu-ra il 1589 e il 1594), la poesia (e insieme la lettematu-ratumatu-ra in volgare ungherese) si manifesta negli ultimi anni del XVI secolo e più stabilmente nel XVII in due filoni principali: le traduzioni di salmi e testi sacri e il poema epico, che dividiamo in poema storico vero e proprio e in novella o romanzo di tema amoroso (ma in quasi tutti i poemi storici c’è una storia d’amore, che a volte si impone al centro della narrazione, per cui alcuni poemi andranno ritenuti di un tipo misto). Tra i componimenti del secondo tipo si distinguono gli históriás ének, poemi epici di tema storico in versi. Si cantavano con ogni probabilità su una melodia e in pubblico, erano adattati alla metrica e alle esigenze culturali dei lettori ungheresi. La tipologia permetteva rielaborazioni di soggetti storici o delle storie di amanti più note, fossero essi antichi o contemporanei. Il racconto storico si adattava molto bene a riflettere lo stato d’animo causato dalle contemporanee guerre contro gli ottomani. L’ epica storica in versi è quindi la versione popolare, fruibile delle cronache: non perché si rivolga a strati inferiori della società, ma perché è scritta in ungherese e in semplici strofe monorimiche. Dopo Mattia Corvino e con la Riforma si erano fatti passi avanti nelle scuole del Regno e in Transilvania. Insieme all’epica sono le széphistóriák il primo genere letterario vero della letteratura ungherese in lingua madre. Si tratta di avventurose storie di amore e di cavalleria in versi, i cui soggetti sono ricavati dal romanzo greco ellenistico mediato dal medioevo latino e dalla tradizione medievale in volgare, germanica e romanza. La forma metrica di questi poemi, aperta e senza alcuna struttura, è una strofe di quattro dodecasillabi monorimi (aaaa, bbbb ecc.) ripetuta un numero di volte imprecisato.

L’ amore dei poeti ungheresi per l’epica comincia con le traduzioni dal latino e dal greco. Giano Pannonio aveva tradotto dal greco in latino l’incontro di Dio-mede e Glauco e circa un secolo dopo (1570) Péter Huszti scrisse lo Aeneis, azaz a trójai Aeneas herceg dolgai (Eneide ovverosia le avventure di Enea, principe

di Troia). Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo si traduce sempre di più dal latino e dal greco e l’Eneide è oggetto di alcuni tentativi, fra cui è quello di Dávid Baróti Szabó (1739-1819), che sfrutta le caratteristiche quantitative della lingua ungherese utilizzando dei veri esametri. Csokonai si cimentò nella riscrittura della Batrachomyomachia e Bessenyei tradusse il primo canto della Pharsalia di Lucano.

Dopo il 1820-1830 le due tendenze, l’Illuminismo con la promozione della lingua nazionale e il Classicismo con esiti originali nella lingua ungherese, convergono con più ricchi ed originali esiti nel poema epico e nel dramma romantici.

Seguendo un percorso naturale e generale, l’epica degli ungheresi, anche quando è originale, comincia in lingua latina, che influenza le creazioni ungheresi per la portata culturale e perché è la lingua da cui si traduce. Nella Stauromachia idest Cruciatorum Servile Bellum di Stehanus Taurinus (1490-1519), in cui si narra la rivolta contadina guidata da György Dózsa nel 1514, sono evidenti gli elementi lucanei e omerici. Un nuovo tema vicino ai sentimenti dei contemporanei introduce il benedettino Márton Nagyszombati (Martinus Thyrnavinus, 1480?

– 1524/1533?): nei distici di Ad regni Hungariae proceres (1523 circa) è l’avanzata del Turco al centro del racconto.

La prima opera in ungherese è anonima e intitolata Szabács viadala (Assedio di Szabács, dopo il 1476). Il racconto del passato e dell’attualità intrattenevano l’ascoltatore, più tardi anche il lettore, intanto registravano fatti e vicende, quasi come cronache. Gigante dello históriás ének è Sebestyén Tinódi (1505/1515?–1556), il più noto compositore di epica storica. I suoi poemi sono realistici ante litteram, e infatti sua è anche una Cronica (Kolozsvár, 1554), in versi, in cui al lettore si narrano persino testimonianze dirette. I racconti in versi dovettero incoraggiare i patrioti ungheresi nelle lotte contro il turco: il Szegedi veszedelem (La rovina di Szeged, 1552) e l’Egervár viadaljáról (Sulla battaglia della fortezza di Eger, 1553), dal poeta stesso musicate e stampate, ispirarono le liriche sulla vita militare di Balassi e l’epos di Zrínyi, ma persino il romanzo di Géza Gárdonyi Egri csillagok (Stelle di Eger, 1901), e la rivisitazione poetica del genere nel Krónikás ének 1918-ból di Ady. Più che per la monotona monorimia dei versi, le opere di Tinódi sono oggi apprezzate poiché tramandano melodie di accompagnamento della musica rinascimentale. Verso la fine del secolo il genere è sempre il più diffuso. Uno dei motivi rielaborati dai cantori sono i monda, storie proverbiali, aneddoti storici. È il caso del Toldi Miklós (La vera istoria degli splendidi atti e delle battaglie del famoso Miklós Tholdi, 1574) di Péter Selymes Ilosvai: un eroe del Trecento, le cui avventure diventano tanto popolari da fornire ad Arany, nell’Ottocento, il pretesto per il più famoso poema epico della storia letteraria ungherese. Altri racconti sono più legati ai fatti, come Szilágyi és Hajmási (1560), che narra dell’avventuroso rapimento di una

donna e della liberazione di due prigionieri ungheresi dai turchi nel XV sec. Béla királyról és Bankó leányáról (1570) è rielaborazione di un tema slavo meridionale e pone al centro del racconto una eroina. Infine abbiamo rivisitazioni di temi storici romani, per il tramite medievale, o germanici: Aeneas története (Storia di Enea), Apollonius királyfiról (Del principe Apollonio), Fortunatus.

Le fonti delle novelle amorose in versi (széphistóriák) sono invece molteplici.

In genere si tratta di temi molto noti della letteratura antica greca, latina medievale, rivisitati e mediati dalla cultura italiana e francese oppure della narrativa italiana del Medioevo e dell’umanesimo. Ne sono un esempio le rivisitazioni delle novelle di Boccaccio: Volter és Grizeldis, Titus és Gisippus, Gismunda és Gisquardus (1574).

In quest’ultima l’autore György Enyedi adatta rimarcandoli temi utili alla sua attività di pastore antitrinitario. Il grande successo internazionale di Enea Silvio Piccolomini in ungherese diviene Eurialus és Lucretia (1577 opera di un anonimo di Sárospatak, che potrebbe identificarsi anche con il giovane Balassi). Vi sono infine fonti non ancora individuate ma che rimandano a rielaborazioni della narrativa ellenistica fatte in ambiente italiano, come la storia di Árgirus (1582-1589 ca.) di Albert Gergei: Vörösmarty, al pari di quanto avrebbe fatto Arany tra il 1846 e il 1875 con il Toldi, la utilizzò come base per il dramma Csongor és Tünde nel 1830. Dovette essere la più popolare tra le storie avventurose, se fu stampata un centinaio di volte tra il 1749 e il 1850.

Poiché tutta la letteratura ungherese in volgare dei primi secoli è letteratura di traduzione e riscrittura – si tratti di riprodurre o imitare modelli –, non fa eccezione la poesia, che si dimostra fin da principio il genere più vivo e più praticato dagli scrittori ungheresi. Lo scopo delle traduzioni in questo periodo è principalmente di due tipi: in un caso i testi servivano per il servizio liturgico e per la preghiera comune, nell’altro essi erano destinati alla lettura di intrat-tenimento. Ma in alcuni casi la funzionalità non è disgiunta da una ricerca del bello. Il processo di adattamento è il ginnasio della lingua letteraria ungherese, che raggiunge l’apice nel XVII secolo. Una pittoresca descrizione del mondo dei lettori al principio del Seicento la fa Zsigmond Kemény (1814-1875) nella Vedova e sua figlia:

Per disegnare il carattere di Judit devo osservare che apparteneva alle rare fila delle signore transilvane che leggevano più libri mondani che religiosi. Le piaceva-no soprattutto i racconti in versi, che a quei tempi erapiaceva-no molto diffusi, e riteneva pura verità tutto quello che i poeti narravano. Cecino e il gigante Polifemo, la fata Ilona e il burattino dal naso di ferro esistevano per lei tanto quanto i saraceni, gli eroi cristiani, le donne dell’harem e le loro guardie more come il carbone.

Il particolare mondo delle letture dell’alta società transilvana nella prima parte del XVII non è estendibile a tutta l’Ungheria. Sara, cresciuta nel più ferreo puritanesimo calvinista, a cui la mamma, per rendere onore alla morte del padre aveva bruciato tutti i libri, si trova davanti la biblioteca della signora Judit sua zia, in cui è rappre-sentato tutto il mondo fantastico del lettore, cattolico o calvinista, della fine del Rinascimento e alle soglie del Barocco: Ciro, Alessandro Magno, Tiridate, Abigall.

Favorita dal personaggio del romanzo è l’epica storica in versi del Prode Francesco e delle sue otto mogli, scritta da Gáspár Ráskai (che sembra seguire motivi slavi meridionali; editio princeps del 1552), che anche la giovane Sara recita a memoria avendola letta quando ancora giovane fanciulla, ospite alla corte di István Bethlen, era riuscita ad assaporare la cultura dell’ambiente rinascimentale.

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 50-54)