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L’umanesimo e l’Italia

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 39-44)

Le relazioni diplomatiche fra il regno di Ungheria e gli stati italiani (comuni, corti, Patrimonio di S. Pietro, Regno di Napoli) furono molto intensi già dal XIII secolo e non poche testimonianze, documentarie e artistiche, lo confermano.

Alla fine del Trecento, dopo Napoli e Venezia, Firenze è la città-stato che vanta più intense relazioni politiche e scambi economici con l’Ungheria medievale e rinascimentale. Per quanto riguarda gli aspetti culturali però è probabilmente la prima: nel periodo angioino per via dei buoni rapporti che i fiorentini aveva-no con i rami francese e napoletaaveva-no degli angioini; all’epoca di Sigismondo di Lussemburgo (1396-1444) con nobili cavalieri (Filippo Scolari) e uno dei primi umanisti (Pier Paolo Vergerio); sotto Mattia Corvino (1459-1492) per l’interesse del re verso uomini dotti, pittori, scultori, copisti e miniatori fiorentini. Vale la pena richiamare alla memoria qualche episodio e figura rappresentativi. Anche se gli uomini medievali viaggiavano meno di noi, dobbiamo immaginarci Visegrád, Esztergom, Buda, Pécs e altre città frequentate e abitate da mercanti e banchieri fiorentini, così come le università italiane erano visitate da non pochi studenti ungheresi. Le strade non erano sempre sicure e si preferivano spesso le vie del mare. L’ alternativa alla via Postumia che passava per il Friuli e l’Istria era il porto dalmata di Zara, proprio di fronte alla Romandiola. Da uno dei porti romagnoli dei Malatesti, Cesenatico, si poteva viaggiare attraverso le strade della Romagna Toscana, per Dovadola e San Benedetto in Alpe, e attraverso il passo appenni-nico (oggi del Muraglione) scendere fino a San Godenzo e di lì a Firenze. Così come la conquista della Dalmazia era stata importante per gli ungheresi, per i fiorentini era vitale il controllo di questa fascia di terra dall’Appennino al mare Adriatico, che essi acquistarono con guerre e danari durante il XIV secolo. Dal punto di vista strettamente culturale non c’è dubbio che il punto di osservazione è Firenze. Lo sarebbe per qualsiasi altro regno d’Europa tra fine Trecento e fine Quattrocento. Se è vero infatti che mercanti, studenti, ambasciatori, cardinali viaggiano in entrambe le direzioni, l’egemonia culturale viaggia, talvolta mediata, in una sola direzione: da Firenze verso l’Ungheria.

Dante e Petrarca conoscevano da vicino le vicende storiche coeve dell’Ungheria, che rammentano in brani famosi delle loro opere. Petrarca in particolare, pur non essendovi mai stato, dovette avere notizie precise per il tramite di Giovanni Con-versini da Ravenna, il quale era nato a Buda, dove il padre Conversino era stato il medico di Luigi I d’Angiò. Ma poiché alla scuola padovana del Conversini, nel primo decennio del Quattrocento, sono stati uomini quali Francesco Barbaro e Guarino Veronese, possiamo immaginare che echi della vita magiara si tramandassero per esperienza indiretta in quei grandi umanisti. Petrarca ebbe relazioni con altri

dignitari che si recavano spesso in Ungheria come ambasciatori, soprattutto negli ultimi anni della sua vita quando risiedette a Venezia e poi a Padova.

A Firenze, tra il 1374 e il 1406, tra gli ultimi anni del regno di Luigi e i primi decenni di Sigismondo, è cancelliere Coluccio Salutati. Tra le carte cancellere-sche di Coluccio è conservata (inedita e poco nota) una lettera di re Sigismondo ai fiorentini (forse frutto della penna del cancelliere Alsáni), nella cui conclusio si apprezza molto lo stile del cancelliere fiorentino e allo stesso tempo si critica l’abbreviazione indebita di un titolo regale riscontrata nella salutatio di una missiva ricevuta da Firenze. Dobbiamo pensare che già in quel tempo qualche referendario o notaio della corte ungherese lo conoscesse direttamente o comunque fosse in grado di apprezzarne lo stile.

[…] Ceterum hoc unum sine grandi admiratione preterire non possumus, quod cum apicum vestrorum tanta sit elegantia, tanta facundia, tanta venustas, tanta dulcedo, ut tota series undique sit purpureis floribus exornata, honor dumtaxat suprascriptionis detruncatus est et in suis titulis defectivus; quod quidem nescimus an ignorantia factum sit an iudicio non incerto.

Argomento delle lettere non sono soltanto le guerre, i trattati, i prestiti finan-ziarî, ma anche il commercio del sale e dell’oro, i cibi, le bevande e la musica, che colorano la vita dei governanti. Sono documenti rari, poiché nessuna altra cancelleria del tempo in Europa è così ricca di carte estere e conserva missive dettate da Salutati. Una breve lettera inviata al cardinale Baldassarre Cossa, legato pontificio a Bologna, racconta ad esempio una storia apparentemente curiosa, ma non straordinaria in quel tempo. Due giovani e bravi cantori del coro della cappella di San Lorenzo e di quella dei Signori di Firenze si sono allontanati dal loro maestro, Iohannes Danielis de Flandra. Si chiede di cercarli a Bologna e di rimandarli a Firenze. I due, che potevano essere poco più che bambini, cercarono forse un’avventura nella grande città degli studenti o furono rapiti. Un dalmata e un “pannonius”, entrambi “de regno Hungarie”, erano fi-niti in un coro diretto dal fiammingo a Firenze: erano “proprietà” (schiavi) del maestro fiammingo che scendeva a far scuola in Italia. Quanto Firenze tenesse ai suoi concittadini in Ungheria lo si capisce anche da una famosa lettera di mano del Salutati a Pippo Spano (Filippo degli Scolari). E uno degli allievi di Salutati, Pietro Paolo Vergerio, si trasferisce alla corte di Sigismondo, presso cui rimarrà dal 1418 al 1444, anno in cui muore a Buda. Entrò in contatto con János Vitéz, il primo umanista ungherese, vescovo di Várad, più tardi cancelliere di Mattia Corvino e cardinale a Esztergom. Dell’opera di Vergerio in questo periodo sappiamo pochissimo e ci sono rimaste solo tre epistole, oltre che il

testamento di morte. Nel dedicargli i brani che narrano delle discussioni erudite e piacevoli che si svolgono a Firenze, il Bruni esalta la patria e rimpiange l’amico lontano. La sua funzione era di referendario, vista la dottrina e le conoscenze linguistiche, che comprendevano anche il greco. Ma quale lavoro svolgesse con precisione non lo sappiamo. Una lettera scritta a Iohannes de Dominis, che aveva partecipato al concilio di Basilea-Ferrara-Firenze e accompagnato in Ungheria Ambrogio Traversari nel 1435 (vi rimase fino al 1436), mette bene in evidenza quanto di Firenze ci sia nella Buda degli anni Trenta del Quattrocento. Dopo Vergerio arriva il periodo d’oro dell’umanesimo ungherese e anche questo è in parte sotto l’esempio di Firenze, sebbene il ruolo delle scuole padovane e ferrarese, nonché i rapporti personali del re Mattia con Ferrara e Milano (Galeotto Marzio paragona Mattia a due contemporanei: Francesco Sforza e Roberto Sanseverino) ci forniscano un quadro sempre più ricco e complesso dell’umanesimo alla corte d’Ungheria.

Poeti, storiografi, filosofi, scultori, pittori, architetti, copisti, miniatori. Per rimanere agli scrittori, è sufficiente ricordare la presenza a Buda di due fiorentini illustri: il camaldolese Ambrogio Traversari, di eni abbiamo detto, e l’umanista fiorentino Bartolomeo della Fonte. Quest’ultimo fu chiamato a dare consigli sulla biblioteca del re Mattia e soggiornò a Buda i primi sette-otto mesi del 1489. Per la sua amicizia con Péter Garázda, che aveva studiato a Firenze, aveva progettato seriamente di andare in Ungheria al principio del 1471 (“iam Hungariam cogi-tabat usus amicitia Petri Garasdae Pannonii” scrive il Mehus nella storia della letteratura fiorentina anteposta alle epistole del Traversari, nel 1759 a Firenze), ma dopo i fatti della congiura contro Mattia:

interea quum Petri Garasdae, suorumque opes fractae essent, Florentiae sub-stitit (...) Quum vero anno 1448. Taddeus Ugoletus hac in urbe esset ad per-ficiendam Matthiae Corvini Regis Pannonii Bibliothecam, Fontius contulit, emendavit, misitque plura volumina ad regem Matthiam (...) Invitatus ab eodem Rege, cui opusculum suum de Locis Persianis transmiserat, Hungariam pro-fectus est, Budaeque orationem habuit. Florentiam ad finem an. 1489. reversus Fontius codicibus pro Matthiae Regis bibliotheca exscribendis incubuit, quum plures Viennae etiam describerentur, conposuitque catalogum cum veterum, tum novorum auctorum...

Come si legge dai ricordi del Mehus, il della Fonte ebbe un ruolo nella costitu-zione di quella che fu probabilmente la più ricca biblioteca privata del suo tempo, contando oltre mille manoscritti. La sua dispersione ci insegna anche che l’uma-nesimo in Ungheria ebbe un seguito difficoltoso e meno luminoso di quanto ci

si aspettasse, proprio per l’instabilità politica del regno. Ci fa capire che dove un uomo solo crea la corte, con la morte di quell’uomo e senza eredi, si decompone presto anche l’ambiente culturale.

L’ acme della letteratura latina medievale in Ungheria fu raggiunto nell’uma-nesimo, con l’arte e la personalità di Janus Pannonius (János Csezmicei, 1434-1472). Grazie al sostegno dello zio János Vitéz, studia a Ferrara con Guarino, poi a Padova. Nel 1458 rientra in Ungheria ed è nominato vescovo di Pécs. accusato di cospirazione contro il re, insieme allo zio, aveva intanto cercato rifugio in Italia, ma era morto in viaggio a Medvevár nei pressi di Zagabria. In Italia era tornato come ambasciatore nel 1465 e aveva ottenuto da Paolo II l’approvazione alla fondazione dell’Academia Istropolitana a Pozsony. Dopo i tentativi falliti a Pécs nel 1367 e a Buda nel 1395 e 1410, l’Ungheria ebbe dunque il suo studium, che aveva per modello istituzioni italiane, in particolare l’accademia platonica fiorentina, ma che durò poco e si spense definitivamente con la morte di Mattia.

L’ Italia del XV secolo è la culla degli studia humanitatis, ma l’ungherese Panno-nius testimonia che un orizzonte sovranazionale caratterizzava quel movimento culturale: la res publica litteratorum.

Tra Janus Pannonius e il Planctus di Maria in ungherese antico intercorrono quasi due secoli. E parallelamente all’apice della poesia di Pannonius incontriamo i primi frammenti di poesia in volgare, che risalgono agli ultimissimi anni del XV secolo. Il Planctus era stato un timido sbocciare, ora timidamente si diffonde la poesia mondana. Senza scalfire il predominio della scrittura in latino, che resta lingua letteraria per eccellenza almeno fino al XVII secolo. La poesie di Janus Pannonius sono soprattutto epigrammi e panegirici. Si afferma come uno dei migliori poeti dell’epoca grazie agli epigrammi erotici giovanili, esemplati sul modello di Marziale e del Panormita. Eccone un paio di esempi nella traduzione di Gianni Toti:

Su Lelia

Lelia, perché tante volta maligna mi chiedi la lingua?

Se proprio ti piace, vipera, inghiottimi tutta la testa.

Della vulva di Ursula

Tutto intero io sono divorato dalla voragine di Ursula.

Oh Alcide, se tu non mi aiutavi io ci perivo.

Non si salva nemmeno Paolo II, di cui Janus fu ambasciatore presso Mattia Corvino e a cui rinfaccia in più epigrammi la paternità (le traduzione in prosa seguenti sono di Donatella Coppini):

Paolo sommo pontefice

Dal momento che hai una figlia, Paolo, e hai tanto oro quanto Roma prima d’ora ha visto pochi papi possedere, santo padre non puoi esser chiamato, ma padre beato sì.

Non solo distici elegiaci, ma trimetri giambici, endecasillabi faleci sono le forme preferite dal Pannonio, che è indubbiamente un artista della tecnica, come lui stesso, rifacendosi a Marziale, sostiene :

Loda con modestia la sua opera.

Pubblico dotto, questo non è quel grande facetissimo Marziale, ma la scimmia di Marziale, a cui tu dedicherai il tuo tempo non quando vorrai occuparti di un sacro poeta, ma solo quando vorrai giocare con una scimmietta.

Il paragone con la scimmia non è dispregiativo: l’imitazione, che per gli uma-nisti è l’essenza stessa del poetare, è anche per Pannonio un gioco sottile di riferimenti e citazioni nascoste, come avrebbero voluto Seneca e Petrarca, un far sentire o vedere l’“aria” di qualcosa che rievoca e fa ricordare, che allude persino, ma che identico non è.

Con i panegirici, rifacendosi innanzitutto allo stile di Claudiano, Janus è pre-cursore eccellente nella letteratura ungherese in un genere che sarà fertilissimo:

l’epopea. Il primo componimento è un esercizio scolastico, Eranemos (La gara dei venti). A Guarino dedicò il panegirico Ad Guarinum Veronensem Panegyricus, e su indicazione del maestro nel 1451 compose il Carmen ad Ludovicum Gonzagam, una poesia di ringraziamento per il duca di Mantova. Un anno più tardi è il suo mecenate, il veneziano Giacomo Antonio Marcello, a chiedere un panegirico di Renato d’Angiò. Nel 2009 Géza Szentmártoni Szabó ha identificato una parte sostanziosa del componimento che era data per dispersa. Allo stesso Marcello fu dedicato un lungo panegirico (composto durante un lungo periodo che va dal 1453 al 1469), in cui Venezia è celebrata quale risurrezione di Roma antica e vi troviamo l’idealizzazione del maestro come modello dello studioso e professore umanista. Janus aveva anche promesso un poema di tema magiaro sulla dinastia di re Mattia (gli Hunyadi), ma il progetto non giunse a compimento.

L’ epoca delle grandi cronache medievali e umanistiche finisce con la più grande crisi del regno, l’arrivo degli ottomani e la presa di Buda nel 1541. Le cronache ebbero però effetto sullo sviluppo letterario, se il primo genere di poesia in unghe-rese, nella prima metà del Cinquecento, è proprio quello storico-epico. La seconda generazione di umanisti si era formata in Olanda, in Germania o in Italia: furono seguaci di Erasmo e scrissero le loro opere all’estero. Tra essi spiccano il cardinale Miklós Oláh (1493-1568) autore di Hungaria (1536) e Attila (1537); il vescovo István Brodarics, segretario del re János Zápolya (tra il 1526-1540), che narrò per le corti europee il dramma della battaglia di Mohács; Johannes Sambucus (1531-1584), filologo ed editore di Janus Pannonius e di Bonfini; András Dudich (1533-1589) e Miklós Istvánffy (1538-1615). Istvánffy fu allievo di Sambucus a Padova (tra il 1552 e il 1556) e poi segretario del cardinale Oláh (dal 1562 al 1568), e i suoi Historiarum de rebus Ungaricis libri XXXIV sono la prima opera storica degli ungheresi scritta da un ungherese, le cui descrizioni pur colorate nello stile, sono ricche di dettagli e cercano la fedeltà al fatto storico.

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