• Nem Talált Eredményt

La poesia e le guerre

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 75-83)

Balassi fece scuola e molti furono i suoi epigoni, tutti manieristi. Tra essi vi furono nobili delle più grandi famiglie, dei quali conosciamo i canzonieri manoscritti. Temi e forme sono gli stessi. Nei codici manoscritti, che spesso raccolgono canzonieri trasmessi oralmente, durante tutto il XVII secolo, si ritrovano anche testi e musiche (in ungherese nóta) che più tardi sono finiti nelle raccolte di poesia popolare degli etnografi, segno che in non pochi casi è la poesia colta ad esser diventata folclore. Un cambiamento si ebbe con l’arrivo di una rinnovata moda: l’epica. Come era stato per Balassi, estraneo a questo genere, l’ispirazione venne in primo luogo dall’Italia. La differenza non seconda-ria era che l’Ungheseconda-ria dal 1540 fino al 1718 era stato teatro di guerre autentiche:

diversi i nemici e i fronti, ma continuo lo stato di allarme, con il grande regno smembrato in zone di interesse politico delle grandi potenze. Dunque vi era materia sufficiente per fare dell’epica un genere attuale, quasi per unire realtà e fantasia. È il caso dell’aristocratico Miklós Zrínyi (1620-1664), le cui immagini poetiche sono classicistiche di fuori e profondamente cristiane di dentro. Poesia e pensiero di Zrínyi si formano su Machiavelli e Tasso, ma l’epopea Obsidio Szigethiana è più realistica di ogni modello e inevitabilmente si esalta nell’orgo-glio nazionalistico. L’ opera in vero non fu molto apprezzata, soprattutto perché mancava un pubblico con la necessaria cultura, ma il libro in cui venne pub-blicata in miscellanea con liriche sparse (Adriai tengernek Syrenaia, La Sirena del mare Adriatico, 1651), fu la prima pubblicazione di poesie mondane che un poeta ungherese stampava secondo la propria concezione editoriale. I nobili dell’epoca furono invece grandi ammiratori di István Gyöngyösi (1629-1704), che proponeva una fuga nell’epopea più leggera, di tipo erotico con evidenti ascendenze ovidiane, e nell’epitalamio, ove trasferiva in ambiente mitologico storie vere di nobili del passato recente. Per intuire il carattere di queste epo-pee sarà sufficiente dire dei titoli: La conversazione della Venere di Murány con Marte (1663) composta intorno alla promessa di matrimonio del conte palatino Ferenc Wesselényi; La fenice risorta dalle ceneri (1670 ca.) per il matrimonio del principe transilvano János Kemény (racconta della sua ascesa e caduta); e Ilona Zrínyi e Imre Thököly házassága (1683), opera più piatta e breve che ha per titolo i nomi dei nubendi. Accordi dinastici e matrimoni di interesse più o meno pacifici offrono la circostanza alla poesia eroticamente pudica, dalle tinte eroiche e fantastiche, qualche volta noiosa e stucchevole. Sempre al genere epico appartiene Új életre hozatott Chariclia (Chariclia riportata in vita), rifacimento in rime degli Aithiopica di Eliodoro, che il poeta non conosceva nell’originale, ma in un rifacimento tedesco.

Nel 1648 Zrínyi termina l’epopea L’ assedio di Sziget, quindici canti di strofe rimate di quattro versi, la prima epopea eroica in lingua ungherese che corri-sponda a regole classiche ed abbia per tema la guerra. Il protagonista dell’epopea è il bisnonno del poeta, Miklós Zrínyi che nel 1566 con un piccolo drappello di soldati aveva difeso con eroismo il suo castello contro l’esercito di Solimano II.

L’ opera segue apertamente Virgilio e Omero. L’ amore di Didone e Enea ispira l’episodio amoroso del poema, così come echi dell’episodio di Niso e Eurialo riecheggiano nelle battaglie. Omero è tenuto presente nei ripetuti duelli tra i co-raggiosi cavalieri dei due campi, uno dei quali è accompagnato da un tradimento.

Al tempo stesso il poema è scritto sotto l’influsso dichiarato della poesia epica italiana contemporanea: la Gerusalemme liberata, poi La Strage degli Innocenti e la Gerusalemme distrutta del Marino, la Christias di Girolamo Vida. L’ epopea di Zrínyi è pienamente barocca e cristiana: il protagonista, che è eroe antico e miles Christi a un tempo, al momento della morte viene portato in cielo dagli angeli.

Il barocco di Zrínyi si mostra forse ancora meglio nell’Adria tengernek Syrenaia (La Sirena del mare Adriatico), nella scena dell’incontro del prode turco Delimán, innamorato della figlia del pascià Cumilla, destinata però ad altro sposo:

XII, 47-51

Non s’attardò poi troppo Delimán, Va da Cumilla, nel cuore portando Grande gioia e lì vuol esser presto, dove la rete ha steso già Cupido.

O quanto ignora la mente dell’uomo!

Se alcuno il suo futuro conoscesse, eviterebbe certo molti passi, e Delimán Cumilla eviterebbe.

L’ un l’altro vi inseguite, fortunati, che poi sarete sfortunati entrambi.

Ah! Orrende trame a voi le Parche tessono Così si spezzerà ogni vostra gioia!

Del loro incontro cosa posso dire, di tanto amor di due giovani amanti?

Sulle lor bocche raddoppiano i baci, nel trionfo di Venere essi gioiscono.

Come l’edera all’albero s’avvinghia, la serpe alla colonna s’attorciglia, la foglia di Bacco al legno s’aggrappa, tanti diversi amplessi han due fenici.

I singoli rintocchi dell’orologio del Tempo, le illusioni di Venere, la Morte iscritta nelle facce dei Turchi, il fascino dell’unica salvezza terrena, la Fama: anche qui idee petrarchesche, traccia di letture e di libri che il conte Zrínyi aveva in biblioteca.

E temi ungheresi: tanto era stata ritrosa la poesia magiara agli strali di Cupido (con l’eccezione di Balassi e della sua ristretta cerchia), quasi per natura incline alla meditazione su temi da Triumphi.

[Il Tempo e la Fama]

Vola il tempo sull’ali, Nulla mai attende e scorre, Come corrente in piena;

Indietro mai si volge, Tutto divora in terra, Su ogni creatura impera;

Indifferente, il ricco E il povero dilania, Oppositor non ha.

Una sola resiste Alla forza del tempo, Ferma nella sua pace;

Ala veloce e falce Non teme, perché scivola Il tempo su di lei:

La rilucente fama, Strada alla gloria, Eternamente fissa.

E temi simili ritornano in brevi frammenti:

Non con la penna scrivo, Non con nero d’inchiostro, Ma con punta di sciabola, Col sangue nemico, La mia eterna fama.

E ancora:

Se non la tomba, è il cielo azzurro il tumulo, Purché sia degna l’ultima ora mia,

Sia un lupo o un corvo a divorarmi, ovunque Sopra sta il cielo e sotto sta la terra.

Di grande interesse e attualità è lo scritto politico-militare sulla guerra contro i turchi e la situazione europea, Az török áfium ellen való orvosság (Medicamento contro il veleno turco, 1663). Non lontano da echi machiavellici, Zrínyi dimostra che l’Ungheria non può contare su nessun alleato in quella guerra, ma solo su se stessa. Il teorema, che si muove tra l’esagerazione patetica dell’introduzione e la fredda analisi geopolitica, trova soluzione soltanto nella svolta morale che Zrínyi chiede ai suoi compatrioti e che ci presenta un tema destinato a svilup-parsi fino ai nostri giorni: gli elementi di decadenza della nazione magiara sono la causa della debolezza e della divisione. Da quest’opera nel 1955 Zoltán Kodály compose una cantata, che divenne colonna sonora alla radio ungherese durante la rivoluzione del 1956.

Nella poesia epica in cerca di strade nuove, nel Settecento, ebbero un ruolo il rafforzarsi della resistenza nazionale contro l’assolutismo illuminato degli Asburgo, la rivendicazione sempre più forte dell’indipendenza e l’espressione decisa dell’identità nazionale. In questo processo un ruolo da protagonista spettò al professore scolopio András Dugonics (1740-1818) che, all’inizio della sua car-riera, riscrisse in prosa le epopee di autori classici (Omero, Apollonio di Rodi), trasformandole in storie romanzate (Trója veszedelme, ‘L’ assedio di Troia’, 1774;

Ulissesnek csudálatos történetei, ‘Storie miracolose di Ulisse’, 1780, A gyapjas vitézek, ‘I cavalieri della lana’, 1794), dedicandosi poi al romanzo in prosa.

La lirica della seconda metà del Seicento e del primo Settecento mostra una varietà di forme, che vanno dagli epigrammi alla canzone del tipo ungherese (un numero di strofe variabili di quartine di dodecasillabi monorimi), nei più

svariati temi che però sono sempre dettati da un’esperienza concreta, sia essa la guerra (contro il Turco o contro gli Asburgo) siano i momenti della vita umana scanditi da cerimonie religiose. Aumenta in modo esponenziale la produzione poetica nel genere, poco più che dilettantesca, che rimane manoscritta e vede cimentarsi con le rime non più soltanto nobili o colti scrivani di corte (i deák, coloro che sapevano scrivere in latino, quindi gli scrittori, poi studiosi per anto-nomasia), ma anche predicatori, insegnanti, soldati di rango. Si scrivono in versi anche codici di leggi, grammatiche e il Vangelo.

Una parte della produzione di questo periodo mostra un contatto fra poesia semicolta e poesia popolare ed è perlopiù rappresentato dalla vasta produzione della poesia nata nell’ambiente della lotta d’indipendenza antiasburgica guidata dai principi transilvani tra l’ultimo quarto del XVII e il primo decennio del XVIII secolo, di cui narra le sofferenze: una poesia di uomini in fuga, di predicatori, di esiliati, di soldati ed ex-soldati, che copre un vasto campo tematico, dal canto goliardico alle geremiadi a carattere escatologico. La gamma è composita: since-ramente nostalgici o sconsolati, parodiaci o luttuosi.

Il lamento del compare

A che rattristarti compare, se non hai più nulla?/Dio è buono e il bene dà, sii forte e spera!/Arriva il giorno in cui la tenera erba/ che vedi, entrambi ci attende!

O caro compagno, ha ben motivo il mio lamento/che tanti sono i guai che mi as-sillano/Mille pensieri mi perseguitano/E ogni minuto langue il mio spirito.

Uno straccio il mantello sul fianco/e pesante il calzone per i mille rappezzi/

(...)

Non c’è biada non c’è grano, meschino e deforme il cavallo/Schifosa la stalla, la casa una rovina/(...)

Pane o carne ce n’è appena/solo briciole nella bisaccia/non ho un quattrino/

tutto consumato nell’andare e andare.

Al cavallo il ferro è consumato/e quel che c’è non vale/Se non lo ferro presto quello mi muore/ed io rimango a piedi ramingo.

La mia pelle di lupo ha perso i peli/la ragnatela ha invaso la borraccia/pidocchi a frotte mi galoppano addosso

Bastardi! Come vivo? Vivo/metto la pancia al sole/quando ho fame fumo/tiro a campare io con tanti altri.

La produzione più tarda e più nota nasce durante le campagne del Rákóczi nell’Alta Ungheria (1704-1711), ed è chiamata poesia kuruc (forse da crux) per

l’omonimia con i soldati arruolati. Si segnala anche per fenomeni linguistici speciali, contaminazioni con la nascente poesia slovacca, poesie bilingui ungaro-latine. Il seguente Anagramma slavicum (poesia in slovacco dello scorcio del XVII sec.) è un gioco di corrispondenze fonetiche col nome del principe ungherese:

il granchio con gli occhi, rák-očy, in slovacco ‘granchio’-‘occhi’, parla all’aquila imperiale:

Il granchio ha ricevuto occhi e ali nel suo antico stemma/e volando parla alla mostruosa aquila:/“Ti saluto cara aquila che umili il granchio/ma per cattu-rarci non hai una rete tanto sottile,/Ora anch’io ho ricevuto le ali dal leone e dall’aquila,/non abiterò mai più in stretti pertugi”.

La più famosa tra le canzoni dei kurucz è Csinom Palkó, dove csinó sta per csikó, cioè puledro, cavallo giovane (secondo altri è un’interiezione di incitamento di origine slovacca), Palkó e Jankó sarebbero dunque due cavalli.

Csinom Palkó

Avanti Palkó! Avanti Jankó!

La carabina ho d’osso la giberna bella di seta, due pistole decorate.

Forza, avanti, buon soldato, beviamo alla salute!

Balli ciascun di noi con la sua bella.

Lungi da noi la tristezza, Andiamo alla pianura:

faremo a pezzi i lanzichenecchi!

Forza, anche ora facciamo fuori tutti i nemici!

Mostriamo alla nazione il coraggio nostro.

Il kuruc ha la veste di lino La moglie è una perla il tedesco ha una tela da niente la moglie è di nebbia.

Forza Miska, dàgli al tedesco infuocato!

Nostra è la vittoria in ogni maschia battaglia Via i lanzichenecchi dalla nostra nobile terra!

Che non gli si debba strappar via anche la pelle!

In seguito alla sconfitta del movimento di Rákóczi prevale il bujdosóének, un tipo di canto del “vagante”, che esprime la mestizia e la miseria dei soldati dispersi e senza patria. Tra queste la più famosa è la Rákóczi-nóta (La canzone di Rákóczi), nota in decine di versioni, simbolo della lotta per l’indipendenza fino al 1848, il cui incipit suona così:

Oh, antico e bel popolo magiaro!

Come ti straccia e spezzetta il nemico!

A che punto è ormai il tuo stato vaso che andrà in pezzi.

Eri immagine viva e cara, un tempo, così bello eri o popolo magiaro!

Ora sei come vischio avvizzito sotto gli artigli dell’Aquila.

Povero popolo magiaro quando sarà di nuovo sano?

Sei andato in rovina come un vaso.

Ahi, quando troverà sorte migliore l’infelice stirpe ungherese?

(...)

Testo che, raccolto da Erdélyi nei suoi tre volumi sul folclore magiaro (1846-48), trova echi nell’inno nazionale ungherese e persino nella poesia di Ady, ma sopra-tutto ispirò Liszt, quindi Berlioz nella composizione del Rákóczi-induló (Marcia di Rákóczi) del Faust.

Da uno stuolo omogeneo di poeti rococò (il cui esponente più significativo è László Amade, 1703-1764), emerge una figura che contribuì a importare mode e modelli europei negli ambienti culturali ungheresi, e fu prodromo del rinnovamento linguistico: il “docile gesuita” Ferenc Faludi (1704-1779).

Dell’università e della stamperia che Pázmány aveva fondato a Nagyszombat un secolo prima fu professore e direttore. Quando venne sciolto l’ordine dei

gesuiti, fu cappellano privato della famiglia Batthyány. La sua poesia pastorale e arcadica, di cui aveva fatto profonda conoscenza a Roma, è da considerarsi l’antecedente della poesia epica popolare ungherese fino a Petőfi.

Fortuna che gira

Sul carro di Fortuna accorto siedi, E gira il suo asse e tu non cadi:

Se ti ha ben guidato e qualche favore ti ha reso no, non gioire

La ruota e l’umore viaggiano a un tempo.

Gira e cambia, t’attende oggi un tesoro Domani ti rattrista

e poi ti fa felice o almen lo credi.

(...)

Non guarda ai meriti, sfacciata, cieca, ora dolce madre, ora matrigna ti stima e ti umilia

ti innalza e ti sprezza ti porta tristezza

ora dolce madre, ora matrigna.

A proposito del primo sonetto della poesia ungherese (A pipárúl, Della pipa) Weöres ha scritto di Faludi “che è il primo vero piccolo maestro della poesia ungherese. Con lui termina il periodo della zoppicante poesia nobiliare unghe-rese e comincia il suono nuovo, duttile, civilizzato”. E infatti Faludi fu anche un intelligente creatore di neologismi tuttora in uso, nonché colto editore critico del Discorso funebre.

Al progetto culturale di Pázmány e dei gesuiti si attribuiscono anche alcuni componimenti poetici in latino, che hanno carattere apologetico, come la Me-tamorphosis Hungariae (1716) di Péter Schez, ma più spesso si riallacciano alla tradizione dell’epica storica, mescolando il tema classico della fondazione della città con quello dell’origine della nazione ungherese, Enea ad Attila (qui gli ungheresi sono ancora posti in continuità con gli Unni): Hunnias, sive Hunnorum e Scythia Asiatica egressus (1731) del gesuita László Répszeli (1703-1763).

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 75-83)