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Cronache, leggende, sermoni

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 28-35)

Soggetto centrale delle cronache sono l’origine del popolo ungherese e il suo arrivo in Europa. La trama delle cronache, che per non pochi aspetti potrebbero essere ricondotte ad un’unica fonte comune, è intessuta di dati storici, leggende, miti.

Questo rende difficile il lavoro degli studiosi, i quali devono discernere il vero dall’immaginario nei testi, oltre che tentare di stabilire i rapporti testuali tra le leggende e la loro eventuale comune filiazione. L’ aspetto letterario e mitologico infatti è in esse inscindibile dal racconto storico o dal tentativo di ricostruzione storica delle origini. Seguendo uno schema del Györffy possiamo così elencare i temi al centro della discussione filologica, fecondi anche in letteratura: l’origi-ne degli ungheresi (Eul’origi-nedubelianus, Mel’origi-nemorout, gli avi, l’inseguimento della

cerva miracolosa, il concepimento di Álmos); la patria originaria (Scizia, Ungaria, Dentumoger, Magna Hungaria); l’elenco dei sette capi tribù (i vezér); la teoria della continuità tra unni e ungheresi; Attila e gli ungheresi.

San Ladislao (Szent László, regna dal 1077 e muore nel 1095), ebbe un ruolo importante nella diffusione della scrittura e della letteratura in Ungheria, in questo paragonabile solo a Béla III, che regnò un secolo dopo (tra il 1172 e il 1196) e alla presenza del quale Ladislao fu canonizzato nel 1192. Il suo stesso culto ebbe una enorme diffusione, quasi a dimostrare non tanto o non solo il riconoscimento di popolo, ma piuttosto il principio di un’opera di istruzione e di ordinamento del regno. Il genere storiografico era gradito e utile ai regnanti e come in ogni altra parte d’Europa si trasmise fino al principio del XVI secolo. Prima della seconda metà del Quattrocento abbiamo quattro cronache. Un primo filone è rappresentato dalle Gesta Hungarorum, opera del magister P. (ricordato comunemente come Anonymus P.) della cancelleria, i cui testi più antichi ci sono tramandati soltanto in fonti moderne (XIV secolo). Ciò ha richiesto una ricostruzione filologica non semplice per districare gli intrecci della tradizione testuale: si distinguono così un periodo arpadiano ‒ Árpád (845-907) è il principe che guidò la ‘conquista della patria’ ovvero del bacino dei Carpazi e della Pannonia ‒ dal 1000 circa al 1301, e un periodo angioino, che coincide con quasi l’intero secolo XIV. Non abbiamo notizia sugli autori della prima cronaca e delle successive aggiunte fino al Trecento.

Di diversa concezione le Gesta Hungarorum (1282-1285) attribuite a Simon Kézai:

si tratta della prima cronaca conservata interamente concepita da ungheresi. La Cronaca picta (Képes krónika, 1358) voluta dai re angioini nel Trecento, è un mo-saico complesso di rielaborazioni, ma conserva tracce perdute di cronache dell’XI secolo. Infine abbiamo la cronaca di János Küküllei (1320?-1393), che risale al 1389 e pone al centro del racconto le due spedizioni militari di Luigi I d’Angiò nel Regno di Napoli. Stile e lingua di leggende e cronache rientrano nello svolgimento della letteratura latina medievale, conservando o sviluppando però specializzazioni locali, come si riscontra in tutte le zone geografiche dell’Europa.

La vita di Ladislao IV il Cumano (Kun László, regnante tra il 1272 e il 1290), penultimo della stirpe arpadiana, fu caratterizzata da sfrenatezze pubbliche e private. La cronaca di Simon Kézai è strettamente connessa alla politica del re di cui egli si dice “fidelis clericus”, ed è frutto del carattere anticristiano di quel regno. L’ appartenenza etnica al popolo cumano (kun), che dall’Asia centrale era giunto nel bacino dei Carpazi assimilandosi alla nazione, suggeriva al re e al suo storiografo di corte una riscrittura della storia degli ungheresi, utilizzando anche cronache occidentali. Il racconto è infarcito di leggende, tra le quali la più notevole per l’influsso che ebbe sulla storiografia successiva è l’affermazione

dell’identità di unni e ungheresi. Gli unni-ungheresi dopo essersi ritirati dalla Pannonia vi sarebbero tornati ai tempi di Ludovico II nell’875. Soprattutto dopo la prima edizione a stampa del 1781, le leggende narrate, alcune delle quali evidenti riscritture bibliche, sono sopravvissute nella cultura ungherese, prendendo forma di quadri, edifici, statue, favole: il Turul primigenio (phoenix, o meglio falco), la cerva miracolosa (che è anche delle favole slovacche più antiche) che conduce Hunor e Mogor nella loro futura patria. Da Iafeth, uno dei tre figli di Noè, quindi da una delle tribù originarie che “parlavano in ebraico”, nasce Nemrod (Menroth il gigante, secondo il nostro autore o copista), il quale comincia a costruire la torre di Babele e dopo la confusione delle lingue

[...] [M]enroth, [qui] gigans (sic) post linguarum inceptam confusionem terram Eiulath introivit, quae regio Perside (sic) isto tempore appellatur, et ibi duos filios, Hunor scilicet et Mogor ex Eneth sua coniuge generavit, ex quibus Huni sive Hungari sunt exorti.

Scontata l’assonanza con i biblici Gomer e Magog, figli di Iafeth di Genesi 10, 2.

Qui il Kézai segue solo parzialmente Anonymus, il quale nel narrare della Scizia (corrispondente a una vasta zona geografica a nord del Mar Nero, intorno al mar Caspio, fino al Caucaso e alle steppe dell’attuale Kazakhstan) aveva scritto:

Ab orientali vero parte vicina Scithie fuerunt gentes ‘Gog et Magog’, quos in-clusit Magnus Alexander. [...] Et primus rex Scithie fuit Magog flius Iaphet et gens illa a Magog rege vocata est Moger, a cuis etiam progenie regis descendit nominatissimus atque potentissimus rex Athila. [...] Longo autem post tempore de progenie eiusdem regis Magog descendit Vgek pater Almi ducis, a quo reges et duces Hungarie originem duxerunt.

Un altro fecondo mito letterario ricorrente nelle leggende, totemico nella so-stanza, ma forse influenzato dal racconto evangelico, è la concezione di Álmos (morto circa nel 895 d. C.), padre del principe Árpád, che guidò gli ungheresi al confine del bacino carpatico.

Storia reale e narrativa fittizia si incontrano spesso e nei migliori frutti della letteratura ungherese, nella poesia e nella prosa lungo tutti i secoli. La cronaca e il racconto fantastico sembrano non avere limiti definiti per lo storiografo me-dievale. Egli non conosce le esigenze della storiografia antica greca, ma si ispira piuttosto alle leggende di dubbia autenticità della storia di altri popoli (ad es.

i romani): la storia presente della nazione ha bisogno di una preistoria, di ragion d’essere naturale e sovrannaturale. La pretesa ansia dell’oggettività non fa parte

delle preoccupazioni degli scrittori delle cronache medievali dell’Ungheria. Esse narrano di miracolosi concepimenti celesti dei padri della patria, confondono gli unni con gli ungheresi, scrivono di terre inesistenti, inseriscono etimologie inven-tate ma credibili, esaltano l’eroismo dei propri eroi, ne nobilitano le origini.

Le leggende dei santi furono scritte per motivi di ufficio, cioè per tramandare e fissare al martirologio le vite dei nuovi beatificati, ma anche per rafforzare l’immagine del regno ungherese di fronte all’Europa, e per convincere i renitenti ribelli all’interno del regno. Pur non essendo scritte per intrattenere qualche raro lettore esse ebbero sicuramente effetto sulla diffusione della lettura e della scrit-tura sui primi monaci ungheresi e più tardi sui primi studenti laici. Le leggende dei primi santi ungheresi sono state scritte verso la fine dell’XI secolo durante il regno di san Ladislao. In questo periodo nascono anche le tre versioni della vita di Santo Stefano, morto nel 1038. Esse offrono prospettive differenti delle virtù del re santo, nell’una più severo nell’altra più pietoso, l’ultima (1077 ca.), dovuta al vescovo Hartvik, si concentra sui miracoli e sulla sua beatificazione. Il vergine e valoroso re san Ladislao comprese che per diffondere il culto dei suoi predecessori era necessario fissarne le vite nella scrittura, dando vita così alla letteratura agio-grafica ungherese. Lo esigeva la cultura latina europea di quei secoli. Meno di un secolo dopo, egli stesso divenne oggetto di straordinarie leggende. In molte chiese lungo tutto l’arco carpatico si trovano affreschi che lo rappresentano in alcune sequenze leggendarie della sua vita. Se osserviamo la carta geografica notiamo che gli affreschi oggi conservati si trovano in piccole chiese e lungo una linea che va dalla Transilvania alla Slovacchia orientale, passando per la Subcarpazia.

Probabilmente le zone vuote fotografano, come in molti casi della storia dell’arte ungherese, la distruzione seguita al passaggio degli invasori tartari prima e dei dominatori ottomani poi. Ma poiché quasi ovunque gli affreschi conservati sono per forma, sviluppo tematico, tecniche pittoriche molto semplici (anticipazione medievale della pittura naiv), si può anche ipotizzare che la leggenda si diffuse nei termini narrati soprattutto nelle zone montane o contadine periferiche, dove la lotta e la vittoria contro i tartari erano un ricordo vivo e la devozione per il pericolo scampato fu più apprezzata. La prima e più evidente idiosincrasia tra fonti letterarie e pitture murali è nel soggetto dei cicli pittorici. Essi infatti non narrano quanto descritto nelle due leggende medievali (legenda minor e legenda maior), né quanto contenuto nella Vita Sancti Ladislai, tutte non più tarde della fine del XII secolo. E neppure le cronache ungheresi più antiche narrano degli episodi dipinti. Essi, infine, non sono ricordati nemmeno nelle numerose predi-che in latino conservate dei secoli XIII e XIV. Le scene si trovano soltanto nella Cronaca picta, che riassume, rielabora e arricchisce tutte le precedenti. Gli affre-schi conservati risalgono infatti tutti al XIV e XV secolo. Oltre due secoli dopo

la morte e la canonizzazione, San Ladislao era divenuto simbolo del sovrano sia per gli angioini (1310-1395) sia per Sigismondo (1387-1437). E infatti essi si fecero seppellire nella cattedrale di Nagyvárad, vicino al corpo di San Ladislao. In una delle sue prediche Pelbartus di Temesvár conclude così l’elenco delle nobili virtù del santo (spirituale, corporale, morale, giurisprudenziale):

Beatus rex Ladislaus nobilis fuit secundum omnes premissas nobilitates, quas et summopere conservavit, et ideo feliciter regnavit, et nunc cum Christo rege regnat celis. Merito ergo dicitur “Beata terra” Hungarie, “cuius rex” sanctus Ladislaus “nobilis est” et patronus.

Ladislao ha combattuto più battaglie contro i cumani (più precisamente doveva trattarsi di popolazioni turche che, provenienti dalla Moldavia, attaccarono ripe-tutamente i territori ungheresi alla fine dell’XI secolo). La più famosa, ricordata anche dalle cronache, si svolse in Transilvania, presso il monte Kerlés. Episodi da questa battaglia descrive la Cronaca picta: San Ladislao vede un cavaliere cuma-no a cavallo che rapisce una ragazza ungherese, lo insegue sul suo cavallo Szög, lo raggiunge e potrebbe trafiggerlo con la lancia, ma non riesce ad avvicinarsi con il cavallo; il re grida alla ragazza “Cara sorella, afferra il cumano per la cinta e gettati a terra!”; la ragazza esegue l’ordine e i due cavalieri cominciano il duello;

San Ladislao non riesce a vincere il cumano; la ragazza lo aiuta tagliando il ten-dine al tallone del cumano; con l’aiuto della ragazza il re santo ferisce al collo il cumano; San Ladislao riposa con il capo posato nel grembo della ragazza (quasi una ‘dormizione’). Gyula László ha registrato più di cinquanta affreschi. Molti sono andati perduti con l’abbattimento delle chiese che li conservavano (come a Homoródszentmárton e Sepsibesnyő) e di altri si conservano copie in disegno.

Alcuni episodi della leggenda di San Ladislao sono stati rinvenuti in reperti ar-cheologici dell’Asia centrale. La scena della ‘dormizione’ si trova in una coppia di cinture ornative unno-scitiche al museo dell’Ermitage di Leningrado; la scena della lotta, con la variante dei cavalli in lotta fra loro, è stata rilevata in più og-getti fino anche nelle regioni siberiane. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che si tratti di un antico mito euroasiatico cristianizzato, in cui sarebbe rappresentata la lotta fra il mondo delle tenebre e quello della luce. Anche una ballata sarebbe in relazione con questo mito.

I temi illustrati esaltano gli aspetti eroici e spirituali, del cavaliere e della ragazza:

san Ladislao è sempre raffigurato con l’aureola e anche se le rappresentazioni pa-iono spogliate di un qualsiasi apparato teologico, la dormitio del santo assomiglia a una Pietà di Maria col Cristo, figurando quindi una lettura cristologica. Anche l’insolito aiuto che la ragazza continuamente offre al cavaliere-santo, l’abbattimento del cumano da cavallo e il taglio con l’accetta del tallone, potrebbero essere spiegati

come intervento mariano o angelico. Le immagini sono realistiche e assai crude, quindi esemplari per fedeli delle piccole chiese di campagna e di montagna.

Sorprendente è dunque lo scatto in avanti che fu fatto con la scrittura delle cro-nache negli stessi anni in cui si elaboravano le leggende. Sempre sotto Ladislao e il suo successore Colomanno (Kálmán) si fissarono gli episodi principali della storia del popolo magiaro, delle sue origini, del suo viaggio verso la pianura pannonica.

Materia che era destinata a rimanere storia ufficiale delle corti fino alla storiografia umanistica della seconda metà del Quattrocento, cioè fino a Bonfini e a Ranzano.

Lo sviluppo culturale sotto i re arpadiani è continuo e soprattutto con il regno di Béla III, grazie a rapporti dinastici con la Francia, si attivano la cancelleria reale, i cistercensi arrivano in Ungheria, gli studenti ungheresi vanno a studiare a Parigi.

I litterati che lavorano nella cancelleria in particolare, come altrove in Europa, non sono soltanto scribi, ma rappresentano il centro culturale della corte e del regno.

Cancellieri e vice-cancellieri dei re ungheresi saranno sempre vescovi di una delle diocesi fondate da Santo Stefano. Se nei primi decenni del cristianesimo anche dal punto di vista letterario è centrale la figura di San Gherardo, che proveniva dal monastero benedettino dell’isola di San Giorgio a Venezia, nella cancelleria dei secoli successivi, gli studiosi hanno rivelato influenze della scuola francese, che assieme a quella italiana erano di riferimento per tutta l’Europa.

Le altre leggende antecedenti il 1300 narrano del Principe Emerico, figlio di Stefano, di San Gherardo e di San Ladislao. Nel Duecento e nel Trecento si diffonderanno anche altre leggende di santi, e si comincerà a scriverle in unghe-rese. Così è per San Francesco, San Giorgio, Barlaam e Iosafat, e per le due sante ungheresi: Margherita e Elisabetta.

Le sante ungheresi, entrambe provenienti dalla famiglia reale, Elisabetta (1207-1231) e sua nipote Margherita (1242-1270), sono state oggetto di speciale culto, come testimonia la diffusa rappresentazione iconografica per Elisabetta e il prolificarsi di leggende, con precoce traduzione in ungherese, per Mar-gherita. Elisabetta fu terziaria francescana in Germania, Margherita monaca domenicana: entrambi gli ordini dopo le rispettive fondazioni si erano pre-cocemente stabiliti in Ungheria e intorno al Trecento i primi avevano circa quaranta conventi, i secondi più di trenta. Nata a Sárospatak dal re Andrea II, Elisabetta a quattro anni fu mandata in Turingia, dove più tardi sposò Ludovico IV. Rimasta vedova, ventenne con tre figli, decise di dedicarsi totalmente al servizio dei poveri che già esercitava, morì a Marburg. Fu seguita dal confessore Konrad, designato per lei da papa Gregorio IX. Elisabetta compì un miracolo rappresentato in innumerevoli affreschi, anche in Italia, come a Santa Maria Donna Regina a Napoli (per il tramite angioino cui si devono numerosi ricordi

magiari nella città): sottraeva pane dalle cucine regali per distribuirlo ai poveri, un giorno il cognato le chiese che cosa portasse nella cesta ed Elisabetta, per non svelarsi, disse “delle rose”: aperto il cesto il pane si era davvero trasformato in rose. Fu santificata subito dopo la morte, nel 1235 dallo stesso papa Grego-rio IX. Margherita fu invece offerta bambina come suora domenicana e morì nel convento domenicano sull’Isola del Danubio che oggi porta il suo nome.

Fu santificata soltanto nel 1943, ma il suo culto fu vivissimo in Ungheria. La prima leggenda fu scritta in tre redazioni dal padre spirituale, il domenicano Marcello, e si colloca fra la morte della santa e il 1300: la versione ungherese deriva da questa, ed è databile tra il 1300 e il 1320, con correzioni e ampliamenti apportati tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Poi venne la leggenda del domenicano francese Guèrin, e infine una versione napoletana.

Via via si arricchiscono gli episodi e i miracoli, ma in particolare si aggiungono la levitazione della santa e, soprattutto, le stimmate che ella avrebbe ricevuto.

La ricostruzione filologica è complicata, ancora aperta e coinvolge anche testi di epoche successivi collegati al culto di Margherita. Per Margherita fu centrale l’amore per la passione e la croce di Cristo, la condivisione della sofferenza. Nata in Dalmazia, dove re Béla IV e la regina Maria Lascaris (figlia dell’imperatore bizantino) si erano rifugiati per sfuggire alle invasioni tartare, Margherita fu offerta dai genitori proprio per la salvezza dell’Ungheria e portata, con la balia Olimpiade, presso il monastero domenicano di Veszprém.

(...) La regina le lasciò nel monastero e se ne andò. Dopo quattro giorni Olim-piade prese il vestito delle sante monache. In quel tempo Santa Margherita non parlava ancora bene. In quel tempo Santa Margherita cominciò a studiare l’abbiccì, l’Ave Maria e dopo poco tempo cominciò a studiare molto a ballare e a cantare con le altre bambine. La bambina signora Santa Margherita prese in mano una croce di legno e cominciò a domandare alle sue compagne che cosa fosse quella croce di legno. Esse le dissero che era il Nostro Signore Gesù ucciso per gli uomini. Ascoltando queste cose la santa bambina pianse.

Margherita veste il saio e segue subito le dure regole dell’ordine monastico.

Quando la santa vergine raggiunse l’età di cinque anni, vide che alcune sorelle portavano il cilicio e chiese alla signora Olimpiade, che sempre credette essere sua madre, di avere un cilicio. Ella glielo diede, ma Santa Margherita non lo poteva vestire. Dopo poco tempo, essendo cresciuta, cominciò pian piano a por-tare vestiti duri e talora il cilicio sulla carne nuda. Oh quale grande miracolo che una creatura di grande altezza reale, nel tempo della sua gracile infanzia si tormentasse in quel modo!

Rifiutava ogni vestito nuovo e piangeva se qualcuno le diceva che era una principessa. All’età di dieci anni viene portata nel convento che il re suo padre aveva fatto costruire per lei e le sue consorelle su quell’isola che fino ad allora, dice la leggenda, si era chiamata “dei conigli” e che da quel momento si doveva chiamare della Vergine Maria. Margherita divenne presto punto di riferimen-to per le sorelle e i fratelli, per tanti principi, uomini importanti e vedove che la visitano e che lei incoraggia, aiuta, converte. Ama la comunità e non se ne distacca mai, come anche non dorme fuori dal dormitorio se non vi è costretta a causa delle visite del re e della regina, dei principi. La sua vita è esemplare, nella preghiera: la sua giornata viene descritta attentamente dall’estensore della leggenda. Il culmine del suo amore per Cristo si dimostra nei giorni della Settimana Santa, in cui ogni suo atto è accompagnato da devozione e pianto:

il Giovedì di ogni anno è lei che chiede di poter lavare i piedi, il Venerdì digiuna completamente e piange all’ecce lignum e continua a piangere fino a sera. Negli altri periodi prega incessantemente e con “dolce devozione”; quando fa freddo e tutti tornano in cella, lei resta fissa nella preghiera. Ascolta le prediche e gli insegnamenti non solo desiderando apprendere, ma rivivendo su se stessa le vite e le sofferenze di apostoli e santi, desiderando di vivere come coloro che soffrirono la morte per Cristo. Con due consorelle si fabbricano una cinta di cuoio suino per fustigarsi in segreto. Ammalatasi chiede di essere sepolta sotto l’altare della Santa Croce perché, dice Margherita, il suo corpo non darà cat-tivo odore. E così avvenne: dopo la morte il suo corpo non si decompose e per dodici giorni rimase caldo. Quando dopo due o tre mesi è pronto il sarcofago in marmo e si riapre quello provvisorio, il corpo della santa sprigiona un piace-vole profumo di tante e grandi rose: così testimoniano, presenti, gli scalpellini lombardi chiamati dal re.

Con la leggenda agiografica e la cronaca, il sermone è il terzo genere letterario in prosa del mondo medievale ungherese. Ebbe ampia diffusione in Ungheria per il decisivo ruolo dei domenicani, a partire dal 1221. Il tema del racconto può essere il medesimo: anche San Ladislao fu oggetto di predicazioni conservateci

Con la leggenda agiografica e la cronaca, il sermone è il terzo genere letterario in prosa del mondo medievale ungherese. Ebbe ampia diffusione in Ungheria per il decisivo ruolo dei domenicani, a partire dal 1221. Il tema del racconto può essere il medesimo: anche San Ladislao fu oggetto di predicazioni conservateci

In document La letteratura degliungheresi (Pldal 28-35)