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N N OÉMI B ERETHALMI

In document Imre Barna (Pldal 75-82)

ferma che esso esprime soltanto uno stato d’animo del momento e non vuole ave-re alcun valoave-re sistematico – esplica il proprio pensiero in maniera chiara e detta-gliata, spiegando i motivi per cui nel mondo moderno l’uomo si isola e si stacca dal-la realtà. I pensieri esposti nell’Uomo come fine, sulle cause e sul fenomeno dell’a-lienazione dell’uomo moderno, appaiono immutati nella prefazione dell’autore al-la raccolta dei saggi del 1963, anch’essa intitoal-lata Uomo come fine. Quindi le idee formulate nel saggio, pur non facendo parte di un sistema filosofico, sono elemen-ti fondamentali del pensiero di Moravia.

Le opere biografiche di SICILIANOe di ELKANNsono nate ambedue in forma di intervista. In esse Moravia evoca la propria vicenda di narratore, romanziere e so-prattutto di uomo; attraverso le domande degli intervistatori-amici compaiono det-tagli significativi sul carattere, la mentalità, la concezione dell’arte e della vita del-l’autore romano.

Torniamo, però, all’analisi tematica de L’attenzione. Il motivo fondamentale che determina l’andamento dell’opera è l’ossessione del protagonista di scrivere un ro-manzo autentico, dopo un precedente tentativo fallito. In particolare, si forma in lui un’estetica che finisce per dominare non solo il suo stile letterario ma anche tutta la vita reale. La trama de L’attenzione, non è particolarmente movimentata, sebbene la situazione di apertura che il protagonista deve affrontare è esplicitamente assurda.

Merighi, giornalista e scrittore, che passa 10 anni in una condizione di assenza dal-la sua famiglia (moglie e figliastra), un giorno scopre che dal-la moglie è una ruffiana che ha tentato di indurre a prostituirsi anche la propria figlia. Questa strana rivelazione avviene però solo per ragioni letterarie – perché Merighi decide di scrivere un diario.

Decisi così di fare una specie di esperimento: avrei tenuto un diario durante uno di quei brevi soggiorni romani, tra due viaggi. Un diario di due mesi della mia vita. Poi da questo diario, in qualche modo, avrei ricavato il romanzo, cioè una narrazione ogget-tiva, in terza persona e in passato remoto.3

E proprio nei primi momenti del suo nuovo atteggiamento, più attento, avviene la rivelazione della funesta condizione in cui è caduta la sua famiglia. In una situa-zione simile qualsiasi persona penserebbe di agire, tentando di rimettere in ordine le cose. Ma non Merighi che, nel dramma familiare vede soprattutto un ostacolo al-la realizzazione di un romanzo senza azione, e che, con il suo atteggiamento da let-terato isolato, opta per risolvere i problemi a modo suo; decide quindi di accettare le cose come stanno e di non intervenire in alcun modo.

Ho capito ad un tratto che non dovevo assolutamente risolvere la mia situazione fa-miliare da «uomo», come l’avrebbe risolta «chiunque al mio posto». Non ero infatti un uomo, né chiunque, ma quella ben precisa persona che ero. Dovevo dunque risolvere la mia situazione familiare esattamente da quel romanziere che ero [...].4

Il protagonista sceglie ancora più facilmente la via dell’inazione, persuaso che la cor-ruzione non è una cosa insolita, né eccessivamente rovinosa, poiché essa «era

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cosa di naturale, di biologico, forse di necessario, comunque di inevitabile che per-ciò non poteva avere alcun significato, alcuna importanza».5

Inizia così la redazione del diario in cui gli eventi non solo vengono descritti ma anche selezionati sulla base di un principio di utilità letteraria; il protagonista non si ferma alla selezione dei fatti, li completa anche quando ne sente il bisogno.

Ben presto, tuttavia, supera anche la semplice selezione e finisce per regolare il pro-prio atteggiamento, aderendo a un principio di estetica dell’autenticità: la scrittu-ra del diario si tscrittu-rasforma in un metodo per eccellenza per poter capire la realtà.

Una delle conseguenze imprevedute del mio impegno di tenere un diario col proget-to di ricavare più tardi un romanzo è che la mia condotta viene a subire indirettamente l’influenza di questo progetto.

[Il romanzo] serve da pietra di paragone per tutto ciò che va fatto e non va fat-to nella vita. Il romanzo è diventafat-to col tempo per me una maniera di intendere il rap-porto con la realtà. Incapace di agire autenticamente, ritrovo come d’incanto l’auten-ticità appena metto tra me e la realtà la mediazione del romanzo.6

Merighi quindi, con il tramite del diario, comincia a controllare e discriminare gli eventi che accadono intorno a lui. Per l’appunto in questa maniera il progetto del romanzo e la scrittura del diario fanno sorgere un metodo efficace che aiuta a tro-vare una ragione nella complessità imbarazzante della vita. Il problema fondamentale del protagonista, dunque, è di non riuscire ad integrarsi e vivere con naturalezza un’esistenza che egli ritiene assurda e banale. Ecco perché inventa il metodo della scrittura esistenziale, attraverso la quale, se non per la vita, almeno per l’opera d’ar-te e quindi in pard’ar-te a sé sd’ar-tesso, riesce a devolvere l’aud’ar-tenticità.

Vediamo, nel dettaglio, cosa pensa della realtà un uomo che deve inventare un metodo scientifico per poterne ricavare l’autenticità che normalmente non rie-sce a scoprire in essa. Abbiamo già visto che il protagonista percepirie-sce l’assurdità delle azioni umane. Citerò un passo che descrive con massima precisione l’im-pressione che Merighi ha sulla vita e sulla realtà.

Sulla facciata di una delle case [...] ho visto che erano stati applicati due giganteschi cartelloni pubblicitari. Il primo faceva la pubblicità ad una marca di estratto di carne per il brodo. Vi si vedeva una tavola imbandita di tutto a punto [...] una famigliola com-posta di madre, padre e figlia. La moglie, sorridente e felice, [...] sollevava il coperchio di una zuppiera: il marito e la figlia [...] aspettavano con gioiosa impazienza di essere serviti.

Nell’altro cartellone, c’era invece la pubblicità di un film. I personaggi sembra-vano gli stessi [...] ma la situazione in cui si trovava la famigliola così serena e così fe-lice dell’estratto di carne, era diversa: la moglie stava rannicchiata seminuda su un let-to sconvollet-to, [...] il marilet-to le spianava contro una rivoltella, dietro di lui si intravedeva il volto della figlia, atterrito, una mano sulla bocca, come chi si assiste impotente ad un fatto di sangue. [...] I due cartelloni descrivevano la stessa famiglia in due situazio-ni diverse, una di serena felicità, l’altra di tragico contrasto. Naturalmente su ambedue i cartelloni dominava l’irrealtà.

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Ma questa non era in fondo la questione. La questione era un’altra; ed era che quei due cartelloni erano non già rappresentazioni falsificate e convenzionali di una realtà autentica; bensì due rappresentazioni fedeli di una realtà che era, essa, all’ori-gine del tutto inautentica.7

Ecco, quindi, il pensiero del protagonista disilluso. La realtà oggettiva esiste, ma per Merighi tale realtà non ha alcun valore, non è giudicabile, è soltanto un surrogato.

E questa realtà a suo avviso inautentica, si nutre dalle azioni umane; dunque l’a-zione stessa non può essere autentica: «l’inautenticità del romanzo derivava dal fat-to che vi si agiva. Io avevo infatti riscontrafat-to che nella realtà della vita non era pos-sibile, almeno per me, agire in maniera autentica.»8

Prendiamo in esame ora la comparazione dei pensieri del protagonista de L’at-tenzione e quelli di Moravia. Si può notare che le critiche formulate dal personag-gio principale del romanzo esprimono pienamente i pensieri dell’autore e che, in qualche modo, la reazione di Merighi, che nasce dalla coscienza dell’assurdità del-la vita, sia in molti tratti identica a queldel-la dell’autore romano. Il concetto di aliena-zione è espressamente teorizzato nel saggio Uomo come fine (1946). Merighi, il pro-tagonista de L’attenzione, è alienato, come in qualche modo lo sono tutti i perso-naggi moraviani e Moravia, appunto, nel saggio predetto delinea i motivi dell’alie-nazione.

Il motivo principale del rapporto mancato con la realtà, secondo l’autore, è

«l’uso dell’uomo come mezzo» insieme all’uso esagerato della ragione. L’impiego dell’uomo come mezzo consiste in una visione trasformata dell’uomo, in cui il fine non è più quello di giungere all’armonia delle capacità umane. I fini che daranno senso alla vita umana saranno scopi che non hanno nulla di umano: l’ottenimen-to di beni materiali, l’efficienza produttiva e così via. L’origine di quesl’ottenimen-to cambia-mento è la presenza smisurata della ragione.

La ragione è uno strumento indispensabile per ogni attività umana; [...] ma non è, né può essere la materia di cui sono impastati la nostra vita e il nostro destino.

Ma se lasciamo che la ragione esca dalla sua sfera di ausiliaria ed invada i cam-pi che non le competono, essa diventerà presto facilmente tirannica e paradossale e ci dimostrerà con la massima disinvoltura che la fine non è l’uomo bensì il benessere di quella società oppure il rendimento di quella fabbrica […].9

Per l’autore, a causa di questa nuova visione dell’uomo, il nostro mondo è diventa-to somigliante ad un incubo opprimente che non solo rende impossibile avere rap-porti sociali adeguati ma disfa anche il singolo individuo.

Il mondo moderno rassomiglia assai ad una di quelle scatole cinesi dentro la quale si trova una scatola più piccola, a sua volta involucro ad un’altra ancora più piccola e co-sì via […] l’incubo generale del mondo moderno ne contiene degli altri minori, sem-pre più ristretti, finché si giunge al risultato ultimo che ogni singolo uomo risente se stesso come un incubo.10

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Moravia riflette anche sul ruolo dell’azione nel mondo moderno e giunge alla me-desima opinione del protagonista de L’attenzione; afferma cioè, che l’agire non può che creare una disperazione senza scampo, in quanto agire solo per sentire la no-stra esistenza non può che essere una forma di autodistruzione.

In realtà l’impiego dell’uomo come mezzo e il proporsi fini materiali e disumani indi-cano una disperazione un disgregamento straordinari dell’umanità.

[…] il ricorso alla sola ragione, l’adottare un fine materiale e disumano, [...] è in-dizio in ogni civiltà, di disperazione [...] questi stati di disperazione inducono l’uma-nità a ricorrere sempre più frequentemente […] a quei modi di vita […] che non pos-sono che accrescere la disperazione stessa. Questi modi di vita […] si pospos-sono riassu-mere in uno solo: la preminenza dell’azione sulla contemplazione.11

A questo punto è d’uopo esaminare alcune analogie tra la concezione di Merighi e quella di Moravia sulla funzione della scrittura; questa aiuta a comprendere meglio la figura del narratore, nonché il suo problema personale di relazione conflittuale con la realtà. Per Merighi il progetto del romanzo e la scrittura del diario diventano gli unici mezzi che possono portare ad un avvicinamento alla realtà. Tuttavia egli afferma che scrivere è qualcosa di artificiale; egli, quindi, non riesce a far nascere un diario sincero: modifica la realtà, è continuamente indotto a cancellare e ag-giungere dettagli, in funzione del suo concetto di creare un romanzo vero, autenti-co. Compariamo partendo da questo punto. Moravia, per quanto riguarda la pro-pria attività creativa, sottolinea di non essere mai capace di fermarsi alla pura per-cezione dei fatti accaduti; aggiunge inoltre di essere carente di sincerità, proprio a causa del suo istinto a costruire. La causa originaria di tutto questo risiede in un uni-co fatto: l’autore solo attraverso la scrittura artificiosa è in grado di interpretare il modo segreto in cui i fatti si sono articolati dentro di noi.

Sono portato a costruire, ad architettare. Sono poco sincero, in altri termini. Sono in-capace di parlare di me con ingenuità; […] è molto difficile sapere quel che si è […] quel che si nasconde sono i fatti, quanto i meccanismi dei fatti. Quel che è segreto sono i mo-di in cui i fatti, dentro mo-di noi, si sono articolati, strutturati, connessi tra mo-di loro.12

Moravia sostiene che sia molto difficile sapere quel che si è; dunque l’unico modo per concepire la realtà ed intendere sé stessi è fornito dalla scrittura.

Analizziamo allora le confessioni dell’autore circa il proprio rapporto ambi-guo con la realtà per scoprire quale risposta diede al dilemma dell’estraniamento e dello smarrimento di fronte alla complessità della realtà. (Per questa parte -della relazione ho preso spunto dall’opera La magia -della scrittura di ARMANDOLA

TORRE13.)

«Scrittore apparentemente ‘aperto’, sostanzialmente ‘chiuso’. Chiarezza e com-plessità. Ecco le prime immediate caratteristiche di Alberto Moravia.»14Questa è l’osservazione di ENZOSICILIANOche si trova in apertura della sua opera biografica su Alberto Moravia. Ma Moravia va oltre e poco dopo, confermando l’opinione

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l’amico che lo intervista, confessa pure che tutto ciò che scrive è sempre costruito, architettato. La motivazione è nella complessità della vita, perché il nostro rapporto con il mondo, e con noi stessi, è «molto misterioso»15. Quel che ci sfugge è «la radi-ce misteriosa, ineffabile, cangiante [...] che sta nella vita, che è la vita stessa»16.

Per l’autore, la vita è complessa, porta alla molteplicità; tuttavia Moravia si era escluso proprio da questa complessità a causa della malattia che lo opprimeva fin dall’infanzia e che lo aveva segnato anche durante l’adolescenza. Inoltre egli è con-vinto che l’esperienza esistenziale è fondamentale per la capacità espressiva di uno scrittore e, nella sua esperienza personale, affronta il tema della malattia con una sensibilità anormale, da cui nasce un nuovo mondo di sensibilità.

Io ho una sensibilità anormale, come tutti gli artisti. Questa sensibilità anormale avreb-be dovuto travolgermi, cioè far di me un pazzo se non avessi avuto la capacità di espri-merla. L’espressione della sensibilità è estremamente complessa, perché non è guida-ta dalla ragione, […] ma dalla volontà intuitiva. Infatti dentro di me non sono un ra-zionalista, sono una persona che soffre di angoscie, di irrealtà, di senso del vuoto.17

L’individuo che non riesce ad essere razionalista è quindi messo in difficoltà dalla realtà molteplice e contraddittoria. Tuttavia il riconoscimento della labilità dell’e-sistenza non porta al nichilismo, bensì alla responsabilità, e suscita la volontà di vi-vere, cioè di scrivere. Mediante la scrittura Moravia si pone di fronte alla propria con-dizione esistenziale di angoscia; la osserva a distanza, e la disperazione svanisce nel conforto e nella serenità della contemplazione.

La scrittura, per il Nostro, è la scrittura dell’interiorità in cui si intrecciano so-gni e realtà. Nelle Lettere dal Sahara lo scrittore chiarisce come la disperazione le-gata alla realtà oggettiva, ambigua, può svanire nel miraggio, nella realtà soggetti-va: la realtà oggettiva «non mi riguarda, non è mia ma di tutti; mentre la realtà del miraggio ha una qualità privata, personale ed esclusiva proprio perché mi ha fatto passare dalla disperazione alla contemplazione»18.

La realtà esterna in questo modo non viene negata, ma vissuta in rapporto al-l’inconscio. Il dato del destino termina con l’agire in direzione del carattere, quin-di si conclude nella scrittura. «La scrittura è il sismografo del mio temperamento»19,

«io sono i miei libri, quindi la scrittura è il mio mondo e la mia esperienza»20. Mo-ravia così riesce a trovare una ragione nella confusione assurda della vita. Per lui la scrittura è la soluzione della questione esistenziale, è il rimedio alla noia, la ricon-quista della realtà soggettiva (che è l’unica realtà afferrabile per noi) di fronte alle frustrazioni, al mistero e al nulla.

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I B L I O G R A F I A

ELKANNA., Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990.

LATORREA., La magia della scrittura, Bulzoni, Roma 1987.

MORAVIAA., «Disperazione e miraggio», in: ID., Lettere dal Sahara, Bompiani, Milano 1981, pp. 74–78.

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MORAVIAA., L’attenzione, Bompiani, Milano 1965.

MORAVIAA., «L’Uomo come fine», in: ID., L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, pp.

193–248.

SICILIANOE., Alberto Moravia, Bompiani, Milano 1982.

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O T E

1Cfr. A. ELKANN, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990, p. 87.

2Ivi, p. 282.

3A. MORAVIA, L’attenzione, Bompiani, Milano 1965, p. 36.

4Ivi, p. 72.

5Ivi, p. 73.

6Ivi, pp. 135–136.

7Ivi, pp. 300–301.

8Ivi, p. 35.

9A. MORAVIA, «L’Uomo come fine», in: ID., L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, p.

210.

10Ivi, p. 215.

11Ivi, pp. 240–241.

12E. SICILIANO, Alberto Moravia, Bompiani, Milano 1982, pp. 24–25.

13A. LATORRE, La magia della scrittura, Bulzoni Editore, Roma 1987, pp. 9–53.

14Ivi, p. 12 e p. 19.

15Ivi, p. 25.

16Ivi, p. 27.

17A. ELKANN, op. cit., p. 105.

18A. MORAVIA, «Disperazione e miraggio», in: ID., Lettere dal Sahara, Bompiani, Milano 1981, p. 77.

19A. ELKANN, op. cit., p. 104.

20E. SICILIANO, op. cit., p. 74.

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In document Imre Barna (Pldal 75-82)