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Maco. Vado entro

In document La cortigiana : commedia (Pldal 99-119)

SCENA II.

AI.V1GIA e ROSSO.

Alvigia. Che c ' è , Rosso mal pelo?

Rosso. Io credetti che tu fossi perduta.

Alvigia Io son tutta fiacca, io ho parlalo al mio con-fessore, et ho sapulo quando viene la madonna dj mezzo Agosto.

Rosso. Che l'importa il saperlo?

Alvigia. Perchè ho in voto di digiunare la sua vi-glia. Poi mi ho fatto spianare un sogno, et ordi-nato di porre su la predica i miracoli de la mia maestra. Feci la via da la Piamonlesc, ella ha di-sperso, non dir niente. Poi diedi un'occhiata a la gamberaccia di Beatrice, oihò. La sta fresca; poi ho trovalo nel monistero de le Convertile un luogo per la Pagnina; et ho lascialo di andare a Santo

• Janni a visitare l'Ordega Spagnuo!a,_ch'è murala per dar martello a Don Diego! "

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Rosso. Ho inleso questa ciancia.

Alvigia. E fallo ciò clic lu odi, bevvi un boccal di corso alla lepre a cavallo, a cavallo, et eccomi a le.

Rosso. Alvigia, noi siam due, e siamo u n o ; c quando tu mi faccia un servigio di parole, al corpo... al sangue de la intemerata, e del benedetto e con-sacrato, che mi li vo' dare in anima, et in corpo.

Alvigia. Se non ci va se non parole, la vacca è no slra.

Rosso. Parole, e non tantino d'altra cosa.

Alvigia. Favella su, non li vergognare.

Rosso. Vergognarsi in corle ah ? Alvigia. Di' via.

Rosso. 11 non t'aver mai fallo piacer niuno mi fa star sospeso, sia lulla tua la collana.

Alvigia. Io l'accetto, e non l'accetlo. L'accedo caso che io li serva, e caso che non li serva non j'ae-. celloj'ae-.

¡Rosso. Tu parli da Sibilla. Sai lu com'ella è? io vp' male a Valerio, et io sarei il lutto, caso eh' egli venisse in disgrazia del padrone, che buon per le.

Alvigia. Io t'intendo: a ine ah ? sta saldo che 1K>

trovato il modo di minarlo-. · Rosso'.' Come? '

Alvigia Adesso lo penso.

Rosso. Pensalo bene, che nudalo lui in bordello·, io sarei dominus dominantium.

Alvigia. Eccoti il verso.

Rosso. Il cor mi buccina.

Alvigia. Io l'ho.

Rosso. Picspiro alquanto.

Alvigia. Dirò che il suo Valerio ha scoperto a Licito

ATTO QUARTO. 5 2 5

di Rienzo Mazzienzo capo Vaccina fralel di Livia come io gli ruffiano la_ sorgila, e che ¡1 più mal, uomo non è in lulla Roma] e credo che il Uioj padrone il conosca per quella prova cine fece quan-j do arse la porla a Madrema non vuole.

Rosso. 0 che ingegno; o che antivedere, è un tra-dimento che tu non sia Principessa di Cornelo, di Palo, de la Magliana, ctc. Ecco il padrone, Al-vigia, in te domine speravi, che anche io non sarò muto in farti buono il tuo dire.

SCENA III.

PARABOLANO, A L Y I G I A , E ROSSO

Parabolano. Che fa la mia Dea?

Aivigia. Non merita questo la mia bontà.

Parabolano. Dio mi aiti.

Rosso. E stalo un allo da tristo.

Parabolano. Clic cosa c' è ?

Aivigia. Va' serve tu, va' _ Rosso. Circa il fatto mio ne iiictoeó""il· mondo, ma

mi dnol di questa poverina. ~ . Parabolano. Non mi tenete più in su la corda.

Rosso. Il vostro Valerio...

Parabolano. Che ha fallo il mio Valerio ? Rosso. Niente.

Aivigia. Sapete voi Signore? egli è_andalo a dire al fra tei di Livia che il Rosso, et io glfruffiànamo

la sorella. . Parabolano. Oimè che odo io?

Rosso, il più crude! bravò di Trastevere: ha morti quattro decine di sbirri, e cinque, o sei Bargelli

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• e diede jeri delle bastonale a due de la guardia, porla 1' arnie al dispetto del Governatore, et ha a combattere con quel Rienzo che con lo spadone ' tagliò a pezzi le corone al pellegrino, e Dio

vo-1 glia che vostra Signoria ne vada netto

Parabolano, lo scoppio, non mi tenete, che adesso I vado a iìcargli questo pugnale nel core ; non m»

| tenete.

Alvigia. Piano, queto , simulazione, castigazione, e non furia.

Parabolano. Traditore.

Rosso. Stale queto, che sentirà, e n' uscirà mag-giore scandolo.

Parabolano. Assassino.

Alvigia. Non mi mentovale ; l'onor di Livia vi sia per raccomandato.

Parabolano. Con cinquecento scudi per volta l'ho ' ricollo del fango.

Rosso. Ha una entrala da Signore.

Parabolano. Ditemi, saracci più ordine d'aver Livia ? voi tacete?

Rosso. Ella tace, perchè le scoppia l'anima di non vi poter servire.

Parabolano.- Pregala, Rosso caro, scongiurala, al-trimenti io morrò.

Rosso. Mettetemi lesso, et arrosto, Signore, che vi sono schiavo; ma 1' Alvigia non sforzerò mai, per-chè è meglio d'essere un' asino vivo, che un Ve-scovo moria."

Alvigia. Non piangete, caro Signore, che mi deli-bero mettermi nel fuoco per contentar la Signoria vostra ; e che sarà ? se T«suo fratello mi ammazza, io uscirò di slenti c non mi piglierò più dolore de

a t t o q u a r t o . 5 2 7

la carestia^ che a h n e n t r o v a s s ' J o da filare, che non mi hiori'éi di fame.

Parabolano'. Mangiale questo diamante.

Rosso. No diavolo, che son velenosi.

Alvigia Che ne sai tu?

Rosso. Me 1' ha dello il Mainoldo Mantovano cava-lier cattolico, e giojelcava-liere apostolico, c pazzo dia-bolico. il quale è stalo mio padrone. 0 egli è la gran pecora.

Parabolano. Pigliate!, madonna madre.

Alvigia. Gran mercè a la Signoria vostra, venite suso in casa. Aspettaci qui Rosso.

Rosso. Aspetto.

SCENA IV.

ROSSO solo.

Chi Asino è, c Cervo esser si crede, perde l'amico, e i denar non ha mai, disse Mescolino da Siena.

10 t ' h o pur renduto pan per ¡schiacciata, ser . zugo, io so che tu andrai a far il signore a Ti-' goli, bue rivestilo, quanta spuzza eh'ci menava, a ciascuno diceva villania, ed ognuno teneva per bestia, e parlava sempre di guerra come fosse stalo il signor Giovanni de'Medici; e s'alcuno gli ! replicava, al primo li entrava a dosso con il non (è-/

fu così asino, e con il non fu colà scempio; ed 11 maestro da le cerimonie non fa tante pretarìe inforno al Papa in Cappella, quanti egli fa atti col capo quando parla, o ascolta chi gli favella;

cTvuol mal di morte a chi non gli cava la ber-retta, e non gli dà del signor sì, e del signor

- T e

vJs

5 2 8 LA CORTIGIANA.

;no. E fa lo imperiale come se il re di Francia facesse un gran conio di questi tali gaglioffi: pol-{troni, che non meritale di slregghiarc i cani di ffcua Maestà. Dico al nostro ser Valerio, che avreb-: be apposto al" Disille, e s'è corrucciato con il suo j ! fratello," perchè non gli diede del reverendo ne

• { le soprascrille de le lettere; lu uscirai di

signo-| rie furfante, ancora, che lu sia ricco, poltrone.

SCENA V.

ALVIGIA, e ROSSO.

Alvigia. Con chi barboni lu ?

Rosso. Con me medesimo, ben come vanno i no-stri disegni ?

Alvigia. Ben bene; calci, pugna, pelature di barba, ii diavolo, e peggio. '

Rosso. Che diceva egli?

Alvigia. Perchè questo a m e , signore? che ho io fallo, padrone?

Rosso. E'1 signor che rispondeva?

Alvigia. Tu'l sai ben lu, Iradiloraccio.

Rosso. Ah, ah, ah.

Alvigia. Parli che io meriti la" collana ?

Rosso. Ed il diamante ancora segnalo, e bene-detto.

Alvigia. Si gli daria da credere che il mondo tos-se fallo a scale, infine uno innamoralo rimbabi-sce"il primo dì ch'egli s'impania. O r a j l termine del venire è conchiuso alle sette, ed un quarto.

Voglio andar via, che non ho tempo da gillare.

Sia sano.

ATTO QUARTO. 5 2 9

Rosso. 0 che caccia diavoli, o che incanta demo-nii. Ma di che lega debbe esser la maestra, quan-do la discepola è tale? Son qua signor.

SCENA VI. .

PARABOLANO, C R O S S O . ·

Parabolano. Sì che Valerio m'usa di questi ter-mini?

Rosso. Di peggiori ancora, ma non mi diletto di riportare.

Parabolano. In galea, io l'ho deliberalo.

Rosso. Veleni, e cose . . .

Parabolano. Come veleni, e cose?

Rosso. Veleno eh' egli comperò, c celerà.

Parabolano. Questo ò caso da Bargello.

Rosso. Puttane, e ragazzi, e giuochi.

Parabolano. Che ti pare?

Rosso. Tiene istoria del vostro parentado, e della zia vostra.

Parabolano. To' su quesl' altra.

Rosso. E che lo fate stentare.

Parabolano. Tanti servidori, tanti nemici.

Rosso. Vi appone che siete ignorante, ingrato, ed invidioso.

Parabolano. Mente per la gola. Torrai la cura d'ogni mia cosa.

Rosso. Io non sono sufficiente, fedel sarò io, de l'altre cose non ho invidia a farle niuno. Or s'e-gli ha erralo, punitelo e basta. Alvigia farà il debito, ma che direte voi a la signora a la pri-ma giunta?

5 3 0 LA CORTIGIANA.

< Parabolano. Che le diresti lu ?

|>J?osso. Parlerei con le mani.

' Parabolano. Ah, ah, ah.

Rosso. È un tradimento eh' ella non vi contempli al lume.

Parabolano. Perchè ?

Rosso. Perchè a dire il v e r o , dove si trovano dei

; par vostri? che occhi, che ciglia attrattive, che labbra, che denti, e che fiato?· vostra signoria ha una grazia mirabile, e non dico questo per adularvi, giuro a Dio, che quando passate per i la strada, le stanno per gìltarsi dalle finestre.

' Ma pèrehè~non sono io donna ? "

Parabolano. Che faresti lu se tu tossi donna?

Rosso. Mi vi tirerei a dosso, o morrei.

Parabolano. Ah, ah, ah.

Rosso. Se vostra signoria vuol cavalcare, la mula debbe essere in ordine.

Parabolano. Yo'fare nn poco d' esercizio.

.Rosso. Non vi affaticate, che vi ricordo che la gio-stra d'amore vuol gli uomini gagliardi.

Parabolano. Dunque mai per debile?

Rosso. No, ma vi vorrei fresco con Livia.

Parabolano. Andiamo fino a la pace.

Rosso. Come piace a vostra signoria.

SCENA VII.

. VALERIO SOLO.

Io fio pur inciampalo in un ili di paglia, ed in quel si può dir fiaccalo il collo. Io sono stalo assalilo dal mio signore con falli, e con parole,

a t t o q u a r t o . 527

nè mi so immaginare perchè. Cerio qualche pes-sima lingua invidiosa del ben mio gli avrà bisbi-gliato nelle orecchie. È possibile che i signori sieno sì'facili a dar_ credenza...ad ognf7ìanéia?

senza cercar verità niuna sì leggermente trascor-rino a fare, ed a dire ciò che gli pare senza rispello, senza cagione, e senza consiglio al-cuno? elm natura è quella dei signori: che vita è_quellad' un servitore, e che costume è quel della Corte. I signori in tutte le lor cose prò-}

,cedono furiosamente, i servitori tengono sempre il fin loro ne la volubiltà d'altrui, e la corte non j ha maggior diletto che disperare or questo ed]

or quello co'morsi dell' invidia, la quale nacquejl nascendo la corte, e morrà morendo la corte. ì Quanto a me non bramo se non d' andare a ri-posarmi; sol mi affligge il partirmi in disgrazia di colui che mi ha fatto quel ch'io sono, la qua!

partenza mi acquisterà nome d'ingrato. È dirà ciascuno : come il buon Valerio arricchì a suo modo, voltò le spalle al padrone. Onde io son fuor di me, non per l'ingiuria ricevuta a torlo, clic chi serve è obbligalo a sofferire T ira e lo sdegno del padrone, come Io sdegno e T ira del proprio padre. Ma sono uscito di me stesso in pensare la cagione che T ha mosso in verso di ine. Polria la passione eh' ei pale per amore averlo spinto come cieco di quella a disfogarla meco. Certo di qui procede il tutto, io me ne starò così aspettando dove riesce la cosa, non mancando d'ogni umiltà seco, poi faccia Dio;

voglio andar spiando il lutto fra quelli di casa.

508 l a c o r t i g i a n a ,

SCENA Vili. .

ALYIGIA, E TOG-NA.

Alvigia. Tic toc. <

Togna. Chi è? . Aloigia. Son io.

Togna. Chi siete voi?

Aloigia. Alvigia figlia.

Togna. Aspettale ch'ora vengo.

Alvigia. Ben trovala, figlia cara, Ave Maria.

Togna. Che miracolo è questo che mi vi lasciale vedere ?

Alvigia. Questo avvento, e queste tempora mi hanno si stemperala co'suoi maledetti digiuni, ch'io non son più dessa. Grafia^ plena_dqminus lecum.

Togna. Sempre dite le orazioni, ed io non vado più a santo, nò faccio cosa più buona.

Alvigia. Bencdicta tu. Io son peccatrice più delle altre, in mulieribus, sai ciò che li vo'dire?

Togna. Madonna no.

Alvigia. Verrai alle cinque ore in casa mia, che ti vo'porre nelle signorie a mezza gamba, et

bene-dictus ventris lui, e con altro utile che non feci l'allr'icri, in une et in bora bada a m e , inorlis nostre, non ci pensar più. Amen.

Togna. In capo delle fine farò ciò che volete, che merita ogni male lo imbriacone.

Alvigia. E tu savia. Pater noster (verrai vestita da uomo perchè quesli palafrenieri; qui es in ce-lis, fanno di matti scherzi la notte) santificelur nomcn l u a m , c non vorrei che la scappassi in

ATTO QUARTO. 5 5 5

un trentuno, adveniat regnimi luum, come incap-pò£AiigeIa dal moro, in celo et in terra.

Togna. Óimè ecco il mio marito.

Alvigia. Non li perdere ignocca, panem nostrum quotidiano da nobis liodie. Non c' è altra festa ch'io sappia in questa settimana, figlia, se non la stazzonc a san Lorenzo extra.

SCENA IX.

ARCOLANO, TOGNA, E ALVIGIA.

Arcolano. Che chiacchere son le vostre?

Alvigia. Debita nostra debitoribus. Monna Antonia qui mi domandava quando è la slazzone di san Lorenzo extra muros, sic nos dimillimus.

Armiamo. Coleste pratiche non mi piacciono.

Alvigia. Et ne nos inducas. Buon uomo, bisogna pur qualche volta pensare a l'auima, in tcnta-llone.

Armiamo. Che conscienza.

Togna. Tu credi eh' ognuno sia come sei tu, che non odi mai nè messa, nè mattino.

Arcolano. Taci troja.

Togna. Anima tua, manica tua.

Arcolano. S'io piglio una pala....

Alvigia. Non collera, sed libera nos a malo·.

Arcolano. Sai ciò che li vo'dir, vecchia?

Alvigia. Vita dulcedo, che dite voi ?

Arcolano. Che se ti trovo più a parlar con questa baldanzosetla di merda, mi farai far qualche pazzia.

Alvigia. Lagrimarum valle, io non ci verrò se tu mi. coprissi d'oro, a te suspiramus. Dio sa la bontà mia e la mia volontà. Monna Antonia, non

55-4 LA CORTIGIANA,

lasciale di venire a la stanzone come vi ho dello ; ch'egli è il diavolo clic ha preso per i capelli il vostro marito, cleinenles et flentes.

Togna. Egli c ' i vino che l ' h a per i capelli, io verrò.

Arcola.no. Dove andrai tu?

Togna. A la stazzone, a far bene, non odi tu?

Arcolano. Vanne suso in casa, spacciati.

Togna. Io vado : che sarà poi?

SCENA X.

ARCOLANO Solo.

Chi ha capre ha corna, tutti gli avverbj son veri.

Là mia moglttmon-rrUi peso, io mi sono accorto ch'ella cerca le sue consolazioni, e questa Vecchia mi fa pensare a'falti miei: è buono che ¡stasera finga il briaco, che mi sarà poca fatica, e forse Jorfce nu chiarirò dove è la stazzone ch'ella dice.

Tu non odi, o Togna?

SCENA XI.

TOGNA, e ARCOLANO.

Togna. Che li piace?

Arcolano. Vien giù.

Togna. Eccomi.

Arcolano. Non m'aspettare a cena.

Togna. Non fu mai più.

Arcolano. Basta mo.

Togna. Faresti il meglio starli a casa, e lasciar an-dare le taverne, e le baldracchc.

Arcolano. Non mi romper il capo.

. ATTO QUARTO. 5 5 5 '

Togna. Il diavol non volse che lu li fossi imballalo a una, che l'avesse fallo l'onor che lu meriti.

Arcolano. Taci linguacciuta.

Togna. La mia bontà mi nuoce?

Arcolano. Non mi star a civettar per le finestre.

Togna. Parti ch'io sia di quelle, fradiciume che tu sei?

Arcolano. Io vado.

Togna. In quell'ora, ma non con quella grazia: a fare, a far vaglia, tu con l'amiche, et io con gli amici; lu col vino, et io con l'amore. E le por-terai se lu crepassi, va pur là geloso imbriaco.

SCENA XII.

ROSSO, C PARABOLANO.

Rosso. Voi avete una gran paura che'! Sole, e che la Luna non s'innamorino di lei.

Parabolano. Chi sa?

-Rosso. Solo io: p u ò j a r j a natura che la Luna s'in-namori d'una femina come lei?

Parabolano. Può esser cotesto.,Ma il Sole?

Rosso. Il Sol manco.

Parabolano. Perchè?

Rosso. Perchè egli è occupato in asciugare la ca-\

miscia di Venere, la quale ha scompisciala Mer-y

core, volli dir Marte. ' Parabolano. Tu cianci, et io temo eh' il letto ove

ella dorme, e che la casa che T alberga non go-dino del suo amore.

Rosso. La vostra è una gelosia diabolica. Fate vo-stro conto che la casa, et il letto hanno (con ri-verenza parlando) la fojja che avete voi.

3 3 6 LA CORTIGIANA.

Parabolano. Andiamo in casa dunque.

Rosso. Vostra Signoria ha l'ariento vivo a dosso , però non vi fermate punto.

SCENA XIII.

GRILLO SOLO.

A h , a h , ah. Messer Maco è stalo ne la caldaja in cambio de le forme, et ha riciute le budella, come rece chi non ha stomaco d á ^ o l e n r e T F í í t l d o . Lo / hanno profumato, raso, rivestilo, tal che gli par : essere un' altro. Egli salla, halla, canta, e dice còse,

! e con si ladri vocaboli, che par più tosto da Bei·-gamo che da Siena. E maestro Andrea fingendo ' di stupire d'ogni parola, che gli scappa di bocca Ì, gli fa credere con giuramenti inauditi eh' egli è il ( / / p i ù bel cortigiano che si vedesse mai. E Messer

-"^vMaco che ha quella fantasia gli pare esser più f bello che non dice, ah, ah, ah. E vuole a tutti i palli romper la caldaja, acciò che in essa non si l'accia alcun altro cortigiano bel come lui. E mi manda per i marzapani a Siena, et hamrni dello - / che se io non torno or ora che mi vuol dar de

le ferite, et aspetterà il corbo. Il bello sarà che

^ lo vogliono far guardare, come vien fuora, in uno

| specchio^caucavo, che mostra i volti contraffalli:

, ()"TRe"^^so7sèTTOTi che mi bisogna andare al giar-d i n o giar-di Messer Agoslin Chisi, starei a vegiar-der la ..'· festa, ma non posso. Addio Bosso, non m'era

ae-" corto di te.

R > » ATTO QUARTO. 5 5 7

V!

1 SCENA XIV.

ROSSO solo.

Addio Grillo, a rivederci. Cancaro a gli amori, et a ehi gli va dinanzi, et a chi gli va dietro. Io son pur diventato cursore, che cito le ruffiane dinanzi al mio padrone, il quale mi vuol far suo maestro di casa. Io starei prima a patto (Tesser nihil, che maggiordomo, ! quali, ingrassano e. se medesimi, e ie concubine, e i concubini de i bocconi, che i ladroni furano a le nostre fanti; io conosco uno tanto traditore, che presla_ad_ usura al suo Monsignore i denari, che glij-uba nel governo della casa. 0 ghiottoni, o asinoni, che cosa crudele è '1 fatto vostro ! voi andate al destro con le torce bianche, e noi al letto al bujo, voi bevete vini divini, e noi aceti, muffe, e cerconi: voi carni cappate, e noi Buovo d'Anlona in vaccareccia.

Ma dove sarà questa fantasima d'Alvigia ? che dia-volo grida questo Giudeo?

• • SCENA XV. .

~ ROMANELLO Giudeo, e ROSSO.

Giudeo. Ferri vecchi, ferri vecchi.

Rosso. Sarà buono che io Io tratti come trattai il pescatore.

Giudeo. Ferri vecchi, ferri vecchi.

Rosso. Vien qua, Giudeo.

Giudeo. Che comandate?

Rosso. Che sajo è questo?

L ' A R E T I N O . . 2 5

508 l a c o r t i g i a n a ,

Giudeo. Fu del cavalicr Brandino. E che raso!

Rosso. Che vale?

Giudeo. Provatelo, e poi parlaremo del prezzo.

Rosso. Tu parli bene.

Giudeo. Posate prima la cappa. Mettete qui il brac-cio ; non poss'io mai vedere il Messia, se non pai-fatto a vostro dosso; bella foggia di sajo.

Rosso. Di' '1 vero.

Giudeo. Dio non mi conduca sabbaio ne la sinago-ga, se non vi sta dipinto su la persona.

Rosso. Ora al prezzo, e caso che tu mi facci pia-cere onestamente, io comprerò anco questa cappa da frale, per un mio fratello che tengo in Ara-celi.

Giudeo. Quando logliate questa cappa ancora, son per farvi una macca, e sappiale che fu del reve-rendissimo Araceli in minoribus.

Rosso. Tanto meglio. Ma perchè il mio frate è giusto di persona anzi che no, voglio vedertela in dosso, e poi faremo mercato.

Giudeo Son contento, acciocché spendiate sicura-mente i vostri bajocchi.

Rosso. Ti è caduto il cordone, melliti ora lo scapo-lare. A fe si, ch'ella è onorevole.

Giudeo. E che panno !

Rosso. Certo, perchè tu pari uomo da bene, ho pen-salo una cosa buona per te.

Giudeo. Cancaro a la falla.

Rosso. Io voglio che tu ti faccia Cristiano.

Giudeo. Voi avete voglia di ragionare, voi credete a Dio, et io a Dio. Se volete comperare, è una c se volete ragionare, è un'altra.

I Rósso. È un peccalo a farvi bene. Chi ti parla de

! l'anima? l'anima è la minore.

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